Curiosa coincidenza, il direttore milanese debuttò al teatro lirico romano, trent’anni fa, con un’opera ispirata allo stesso soggetto del capolavoro di Giordano. E allora come oggi fu molto applaudito
Un caloroso successo di pubblico e di critica ha accolto l’Andrea Chénier rappresentato all’Opera di Roma dopo ben quarant’anni di assenza, con la direzione di Roberto Abbado e la regia di Marco Bellocchio: per la Fondazione la conferma del brillante rilancio in corso sotto la guida del sovrintendente Carlo Fuortes; per il direttore milanese, 63 anni, al suo debutto nel capolavoro di Umberto Giordano, il felice ritorno in un teatro che frequenta da tempo e che ora è più che mai fra i suoi prediletti.
L’abbiamo intervistato dopo la “prima”, partendo proprio da questo lungo e ora rinnovato rapporto. “Rapporto nato nel 1989”, ci racconta, “con la prima assoluta di Carlotta Corday, un’opera di Lorenzo Ferrero curiosamente ispirata anch’essa alla Rivoluzione Francese: soggetto che forse mi porta fortuna…Cui seguì Luisa Miller e, dal 2012, una presenza ininterrotta con titoli che ricordo con particolare piacere come Gioconda, Benvenuto Cellini, Lucia di Lammermoor. E ora sono felice di partecipare a un momento che vede il teatro in forte ascesa: infatti dall’avvento di Fuortes si respira un’aria più vivace e stimolante, si lavora con più entusiasmo da parte di tutti. E il pubblico è tornato numeroso, dopo un periodo di disaffezione.”
Che cosa l’ha attirata maggiormente, in questo ritorno con Andrea Chénier ?
L’opportunità di debuttare in un’opera fascinosa, che ultimamente è uscita quasi ovunque dal repertorio abituale e che merita di tornarvi. Opera dalla vena lirica dirompente, dalla drammaturgia trascinante e da una scrittura orchestrale e vocale di straordinaria intensità espressiva. Il libretto di Illica le conferisce un taglio quasi cinematografico, di cui Bellocchio ha tenuto conto nella sua messinscena. Il che ci fa ricordare che l'opera esordì nel 1896 ovvero contemporaneamente all’avvento del cinema. Una conferma della sua vasta popolarità, oltre a famose edizioni teatrali in tutto il mondo, è un film italo-francese di Clemente Fracassi del 1955 (Andrea Chénier, le souffle de la liberté) con Michel Auclair protagonista, Raf Vallone nel ruolo di Gérard, Antonella Lualdi in quello di Maddalena, Rina Morelli e Sergio Tofano comprimari di lusso. Interamente basato sul libretto e con commento musicale dell’opera di Giordano, divenne modello di successivi film dello stesso genere e di un fumetto uscito sul popolarissimo settimanale Grand Hotel nel 1962, le cui immagini riproducevano una celebre edizione con Franco Corelli e Marcella Pobbe.
Va detto che questa nuova produzione dell’Opera di Roma ha potuto contare su una compagnia di canto straordinaria: Gregory Kunde nelle vesti di Chénier, Roberto Frontali in quelle di Gérard, Maria José Siri come Maddalena e splendidi artisti anche nelle seconde parti, tra i quali Elena Zilio nel cameo di Madelon, come quest’opera esige. L’accoglienza festosa del pubblico romano fa sperare in un suo deciso rientro nel repertorio.
Lei ha frequentato molto le opere veriste?
Di Giordano ho diretto Fedora al Metropolitan di New York, con Mirella Freni e Placido Domingo, a metà anni Novanta. In quegli anni ho frequentato anche Cilea e Puccini, poi sono passato su altri versanti.
La sua attività artistica è sempre stata equamente divisa fra sinfonica e lirica. Com’è riuscito a mantenere tale equilibrio, difficile per le bacchette italiane che vengono spesso identificate principalmente con l’opera ?
Il problema esiste, soprattutto agli inizi di carriera e io ne sono stato sempre consapevole. Dispiace poi constatare che i tre grandi generi musicali- sinfonico, vocale e strumentale- spesso si ignorano e non comunicano fra loro: vi sono eccellenti orchestre mozartiane che non hanno mai eseguito un’opera di Mozart, dal canto suo il mondo operistico tende a chiudersi in se stesso. Credo che uno dei compiti dei direttori d’orchestra sia far entrare in rapporto repertori e interpreti su tutti i versanti. Così ho cercato di fare. Non ho una preferenza spiccata per l’uno o per l’altro genere, li amo con lo stesso slancio. C’è stato un periodo in cui, casualmente, mi sono dedicato ai concerti trascurando il teatro musicale. Ma ne ho presto sentito la mancanza e mi sono affrettato a fare una correzione di rotta. Delle opere, lo confesso, mi attrae anche l’incertezza dell’esito finale, una specie di suspense dovuta alle incognite delle diverse componenti musicali, vocali, sceniche.
Il suo impegno stabile di questi anni è la direzione musicale del Palau de les Arts di Valencia. Ce ne vuol parlare ?
E’ un rapporto iniziato nel 2014 con l’arrivo alla Sovrintendenza di Davide Livermore che, rispettando la regola di una condirezione musicale collaudata negli anni precedenti da Zubin Mehta e Lorin Maazel, l’ha offerta a me e a Fabio Biondi. Se ci sovrapponiamo? Direi di no, abbiamo repertori diversi: quello del Maestro Biondi va dal Barocco al Belcanto, il mio dal primo Ottocento si spinge fino al Novecento. Finora al Palau ho diretto Don Pasquale, Samson et Dalida, A Midsummer Night’s Dream, I Vespri siciliani. Nel giugno prossimo vi dirigerò Tancredi e un concerto con Anna Caterina Antonacci
Che cos’ha di speciale e che cosa le piace di questo teatro, noto soprattutto per la bellezza del luogo in cui sorge, una specie di città dell’arte con edifici di sogno immersi in un parco e progettati dall’archistar spagnola Calatrava ?
Naturalmente si è incantati dal complesso di edifici teatrali e museali, unico al mondo per bellezza e armonia. Ma c’è anche il contatto con un pubblico nuovo ed entusiasta, perché fino a dieci anni fa a Valencia non esisteva un teatro d’opera mentre ora vi si fa musica, non solo lirica, tutto l’anno. Vi sono infatti tre sale di differenti dimensioni su tre livelli, il che permette di diversificare l’offerta. Io sono impegnato circa tre mesi all’anno, con due titoli d’opera e tre programmi sinfonici
Fra i direttori italiani di spicco internazionale lei è uno dei più impegnati all’estero, dagli Stati Uniti al cuore dell’Europa, all’Estremo Oriente. É difficile armonizzare esperienze tanto lontane e diverse all’interno di una carriera ?
Credo di sì, non solo nel mio caso ma per quanto riguarda tutti i musicisti del nostro tempo, che si muovono continuamente passando in un lampo da una realtà all’altra come non succedeva a quelli di epoche passate. Ogni realtà musicale ha la sua attrattiva, i suoi parametri inconfondibili. Per fare qualche esempio, salire sul podio delle grandi orchestre americane, le mitiche Big Five (che per la verità sono sei, perché oggi va loro aggiunta la San Francisco Symphony) significa immergersi nella pienezza sonora, nella perfezione tecnica assoluta, nel piacere di suonare insieme. Il confronto con le grandi orchestre europee? Impossibile perché, se sono pari in eccellenza, diversa è la loro antica e raffinata cultura del suono e dei colori. Quanto all’Estremo Oriente, meta ormai di tutti i musicisti occidentali, posso citare ad esempio le mie più recenti tournée: a Kuala Lampur sul podio della Malesian Philharmonic, orchestra internazionale composta da malesiani, americani, cinesi, giapponesi, italiani, slovacchi e cosí via, usciti dai migliori conservatori d’Europa e d’America. I concerti si svolgono in un fantastico Auditorium, promosso da una grande industria petrolifera locale, dove si sono esibite le più prestigiose orchestre, dai Wiener alla Filarmonica della Scala. Alla scoperta stupefacente di questa istituzione si aggiunge quella di un pubblico giovane ed entusiasta, che da poco ha scoperto la nostra musica classica e se n’è innamorato. Citerò anche Shangai, dove mi sono recato due mesi fa al Teatro dell’Opera e dove, come avevo già constatato a Taipee, c’è un pubblico immenso al di sotto dei quarant’anni. Segno di grande vitalità e di apertura culturale che caratterizza questi Paesi.
Lei torna però regolarmente in Europa e in Italia. Vuol dirci, in particolare, quali saranno i suoi prossimi impegni italiani?
Il più vicino è in agosto al Festival Rossini di Pesaro dove ritorno con Le siège de Corinthe, rifacimento francese del Maometto II, con una messinscena de La Fura del Baus. Nella prossima stagione tornerò all’Opera di Roma per un’opera verdiana (non ne rivelo il titolo, dato che il programma generale non è stato ancora annunciato). Nel 2018 diventerà operativa la mia nomina a Direttore Musicale del Festival Verdi di Parma. É un incarico che mi attrae molto perché ha punti di riferimento seri e importanti: il Festival disporrà infatti di due orchestre, quella del Comunale di Bologna e la Filarmonica Toscanini, e dei due rispettivi Cori. Come sempre, avrà tre sedi: il Teatro Regio, Il Farnese, il Verdi di Busseto. Ma soprattutto potrà contare su un Comitato Scientifico appena costituito, allo scopo di presentare opere in edizione critica, con la collaborazione dell’Istituto di Studi Verdiani e dell’Università di Chicago. Il potenziale del Festival, con queste premesse e con tanti titoli da riscoprire, è gigantesco e l’impresa entusiasmante.
© Yasuko Kageyama/Opera di Roma (Andrea Chénier)