Questo periodo di reclusione è ovviamente propizio alla riflessione e alla ricerca di nuove proposte di articoli. Stiamo preparando un dossier sull'architettura dei teatri, e abbiamo altre idee, legate all'attualità dello spettacolo, o meglio alla sua non attualità.
Insomma, l'assenza del nostra benzina(lo spettacolo) non deve prosciugare le nostre idee.
Tra le quali quella di aprire un dialogo tra due lati delle Alpi, tra Francia e Italia, con l'amico Maurizio Jacobi, su un argomento che mi sta particolarmente a cuore, e che è anche uno dei punti di riferimento di questo sito, la questione della regia.
Tanto più che ci è stata offerta l’occasione: ho ricevuto molto recentemente un bellissimo regalo di Pasqua, una e-mail (firmata) che non posso fare a meno di comunicare al lettore.
«Tutti gli allestimenti presentati sul tuo blog sono della MERDA!!!!!!!
Sì, MERDA!!!!!!!! Come la parola MERDA!!!!!!!!
E' il partito preso della bruttezza, di questa sporca modernità, che ci porterà tutti contro il muro!
Tutti voi meritate, registi di questa bruttezza che trasforma i migliori cantanti in gente trasandata e sporca, al punto che vorremmo diventare fascisti (e Dio solo sa se non lo sono!), quando vediamo tutte queste stronzate che ci state imponendo sul palco!
Decadenza, denaro, bruttezza, volgarità, al punto che vorremmo prenderti a calci in culo, tu incarni tutto ciò che la società presto rifiuterà ferocemente!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Aspettate quello che vi aspetta... la vendetta del destino dell'arte scenica che pensavate di poter conquistare in nome di questa maledetta modernità, sarà mortale per tutti voi registi, morirete!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! »
Come si vede, il confino ha effetti deleteri sulla mente, perché questo sito, che difende un tipo di regia che a molti lettori può non piacere, cerca almeno di argomentare, di aprire un dibattito intellettuale.
Quindi, siccome io e il mio amico Maurizio, che, avendo avuto responsabilità in un Teatro, ha un punto di vista attendibile, non siamo spesso d'accordo sull'argomento “Regie”, ed essendo lui avvocato ha predisposizione ai tornei oratori, abbiamo deciso di proporre un dibattito online, ovviamente aperto ai vostri commenti, sul tema della messa in scena nell'opera lirica, tanto più che ho spesso rilevato che il pubblico italiano non è molto disponibile sull'argomento.
Apriremo quindi il dibattito sotto forma di dialogo.
Dato che per la ripresa degli spettacoli bisognerà attendere, abbiamo tutto il tempo per discutere, argomentare, sviluppare, sognare.
Sarà una specie di soap opera in salsa Wanderer, ogni giorno il suo dibattito, ogni giorno la sua schermaglia.
In due lunghi articoli sul Blog du Wanderer, io stesso ho affrontato la questione del Regietheater, che il lettore può sempre consultare:
http://blogduwanderer.com/haro-sur-le-regietheater-1-aux-racines-de-la-mise-en-scene
http://blogduwanderer.com/haro-sur-le-regietheater-2-fantasmes-et-realites
Questo dialogo sarà bilingue e sarà disponibile sia in francese che in italiano: le frontiere fisiche sono chiuse, ma le idee ignorano e hanno sempre ignorato i confini fin dall'antichità, ma a differenza dei virus (e di alcune idee anche), non uccidono, ma stimolano e risvegliano.
Vi invitiamo pertanto a visitare il nostro sito in versione italiana e francese.
Guy Cherqui
“La regia è la direzione e il coordinamento di elementi tecnici, scenografici ed artistici per la produzione di uno spettacolo teatrale, cinematografico, televisivo, radiofonico, di massa, sulla base di una interpretazione dell’oggetto rappresentato”.
Ecco una definizione su cui ci sarebbe molto da dire, perché si enfatizza l'organizzazione materiale e la realizzazione pratica, lasciando l'interpretazione per ultima, anche se dici "sulla base di una interpretazione…". Per me la regia merita una presentazione inversa: la regia è prima la lettura di un testo, e quindi la sua interpretazione, ed è la realizzazione di queste idee che poi determinano l'intera organizzazione della scena.
Ho anche trovato una bella definizione su internet, sul sito di un'associazione teatrale amatoriale di Basse-Goulaine sulle rive della Loira:
"La messa in scena è l'orchestrazione di tutti gli elementi di una produzione teatrale (recitazione, costumi, set, luci, suono). È una visione soggettiva che nasce da una lettura approfondita di un'opera, e che indirizza in modo sensibile tutti i creatori riuniti intorno alla produzione. Il regista deve avere assoluta fiducia nei suoi colleghi creatori, e viceversa, perché è un po' come il capo della troupe, quello che fa da guida e assicura la coerenza del lavoro".
Cosa ne pensi?
Tutto bene, basta che ci si ricordi che esistono gli Autori dell’opera (compositore e librettista) ed esiste anche l’Opera in sé.
Poi è ovvio (o meglio dovrebbe essere ovvio) che per mettere in scena qualcosa è necessario leggere (e conoscere, magari anche capire) approfonditamente l’oggetto della rappresentazione.
E’ ovvio che in un lavoro di equipe occorre reciproca fiducia da parte dei suoi componenti; ma se si vuole la riuscita di un’opera, non basta occuparsi di recitazione, costumi, set, e dovrebbero far parte dell’equipe anche Direttore d’Orchestra e cantanti.
E’ anche ovvio che una interpretazione è una cosa soggettiva, e che nell’interpretazione ci deve essere creatività, altrimenti ci si destina alla mediocrità. Tuttavia, occorre intendersi sul concetto di creatività nell’ambito dell’interpretazione.
Perché se il regista trascura che esiste qualcosa da interpretare, e crea quello che vuole prendendo il soggetto come un pretesto, avremo una cosa nuova sua, ma non una interpretazione di un’opera altrui; basta dirlo con onestà.
Può capitare che nasca un capolavoro: però le Variazioni Diabelli sono creazione di Beethoven, non una interpretazione di Beethoven di un valzer di Diabelli.
Può però anche capitare che nasca una presuntuosa creatura autoreferenziale.
Prima di tutto, penso che tu stia andando un po' troppo veloce e, soprattutto, che tu stia partendo dall'inizio con ipotesi un po' esagerate o addirittura polemiche. Fin dall'inizio tu presupponi che certi registi (ma nella tua bocca questo “certi” si avvicina a “tutti”) si discostino dalla nozione di interpretazione per preferire un loro capriccio che perseguirebbero, la loro idea piuttosto che l'idea del libretto o dell'opera.
Se la regia è una questione di interpretazione, è da questo che si deve partire e non da deviazioni o variazioni. Ti suggerisco quindi di procedere con metodo e di riprendere le tue osservazioni punto per punto.
Rispondo al primo punto. Tu estendi giustamente la nozione di team creativo per includere il direttore d'orchestra e i cantanti. Voglio precisare a riguardo che la definizione che ho trovato riguardava il teatro di prosa; nell'opera lirica, è ovvio che il direttore d'orchestra e il regista devono essere d'accordo su un certo numero di punti, di movimenti ritmici, e che i cantanti devono essere associati a questa riflessione. Nessuno ne dubita.
Un regista non lavora da solo, e un direttore d'orchestra deve dialogare con il regista e vice versa, ma non sempre è così, in un senso o nell'altro, perché si discute sempre della questione dell’ultima parola: chi è il capo? Il direttore? Il regista? Wagner ha sempre messo davanti il “poema”, cioè il testo, prima della musica: partiva dal suo testo per comporre. Cioè il teatro prima di tutto. L’opera non è musica, non è teatro, è un misto delle due cose, soprattutto dopo Wagner, in Italia come in Germania come in Francia. Quindi, nella rappresentazione dell’0pera non c’è un capo, e la riuscita è tanto migliore quanto più musica e regia sono congruenti.
Una musica magnifica e una regia mediocre non fanno le grandi serate.
Simon Boccanegra è Abbado+Strehler, ma Abbado ha diretto genialmente il Boccanegra con altre due regie; e se la gente si ricorda solo di Abbado-Strehler, ci sarà una ragione.
Il secondo punto che tu sollevi è la questione del rapporto con l'autore, con il librettista e con l'opera, come se presupponessi che ad alcuni registi non interessi la questione. Puoi fare qualche esempio? Stai attento al fatto che un libretto è stato scritto in un certo periodo e in un certo contesto; il libretto, come tutti testi, non ha un senso iscritto nel marmo, e, al contrario, si legge a seconda dell’epoca, della(e) moda(e) etc…
Cioè tutto è relativo, tutto è labile. Lo stesso vale per la musica tra l’altro.
La mia domanda è: cos’è per te l’interpretazione? Cosa consideri tassativo nel modo in qui il regista deve confrontarsi con l’opera lirica? Cosa chiami “creatività nell’interpretazione”?
Egregio Maestro,
Lei mi bacchetta, ritenendo me polemico per una generalizzazione che mi attribuisce Lei, e dopo avermi pedagogicamente sollecitato a procedere con il metodo da Lei suggerito, ripartendo da capo, ed avermi insegnato che una cosa scritta ieri va letta con gli occhi di oggi, mi interroga perentoriamente su cosa sia per me l’interpretazione.
Mi permetto di rivolgerLe a mia volta la stessa domanda: cos’è per Lei? Mi sentirei più tranquillo a rispondere dopo avere appreso il Suo orientamento.
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A parte gli scherzi, su due cose (mi pare), siamo d’accordo: l’Opera è la forma di spettacolo più complessa che vi sia, e per forza di cose, nella messa in scena non vi può essere un solo capo; la riuscita sarà tanto migliore quanto più tutti gli elementi andranno nella stessa direzione e saranno del medesimo livello (il più alto possibile).
Naturalmente, a causa dei tanti galli (si spera non polli) nel pollaio, la cosa non sarà semplice; e non c’è da stupirsi se, guardando il risultato, ci si accorgerà che invece un capo c’era, se non per gerarchia, per prevalere di fatto di un aspetto o dell’altro.
Lo avevo capito che la definizione che avevi dato della regia riguardava il teatro di prosa; ma mi pare significativo che tu l’abbia scelta, dato che ti riferisci poi a Wagner, sottolineando che metteva sempre davanti il Poema, partendo dal proprio testo per comporre, cioè, come dici, “il Teatro prima di tutto”.
Ora, fin dai primordi l’Opera è stata un misto di parole e musica; il “testo” da rappresentare è dato da entrambe; e qui si pone un problema del rapporto con gli Autori.
Perché, ad esempio, la qualità del loro apporto è spesso squilibrata: la musica dice spesso molto, molto di più, delle parole (anche con Wagner, credo).
Al di à della definizione teorica, di cui parleremo, per me una cattiva interpretazione registica è (ma certamente non solo) quella che fa a pugni con il sentimento, cui evidentemente il compositore non è estraneo, espresso dalla musica.
Sarà anche vero che tutto è relativo; ma, visto che vuoi un esempio, non trovo stia in piedi con la musica di Verdi (ma neanche con Schiller e il libretto) la regia del Don Carlo di Robert Carsen alla Fenice, che attribuisce a Posa un accordo con il Grande Inquisitore per far fuori Carlo e diventare lui Imperatore.
Diceva Italo Calvino, parlando di letteratura, che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”; ma quello che gli vogliono far dire gli altri è semplicemente un falso.
Quindi ti rigiro la domanda: cos’è per te l’interpretazione?
La questione dell'interpretazione è il tema centrale della regia oggi, soprattutto nell'opera lirica, ma non lo è sempre stata e non lo è ancora in alcune produzioni. Nel teatro di prosa, è una questione che è stata risolta già all'inizio del secolo scorso o negli anni 1920.
Nell'opera lirica, l'opera ha continuato per lo più ad essere messa in scena come "illustrazione" del libretto, come se lo spettacolo accompagnasse la musica. L'opera fu anche vissuta come intrattenimento (anche i melodrammi dell’Ottocento), e in un certo senso questa tendenza si limitava a continuare una tradizione illustrativa nata nei Sei- o Settecento che faceva dell'opera uno spettacolo, alla maniera delle “revues” delle Folies Bergères, con piume scintillanti e grande spettacolo. Era per esempio, la moda del Grand-Opera nel periodo romantico, che continuò in Europa fino al Don Carlos. L'opera è prima di tutto un grande spettacolo, bisogna averne pieno gli occhi. Purtroppo, molte persone si fermano se ne accontentano.
Verdi è stato invece sempre attentissimo ai libretti, e ancor di più man mano che maturava e diventava la gloria che è tuttora. La sua ultima collaborazione con Boito, che era un poeta, ne è la prova, ma potremmo anche parlare del Don Carlos, uno dei più bei libretti della sua produzione.
Wagner stesso ha scritto i suoi. La questione del libretto induce a interrogarsi sul teatro, ma non solo. Anche le condizioni tecniche dello spettacolo sono una condizione della nascita della regia: e non c'è dubbio che la nascita della riflessione sul palcoscenico e poi sulla regia alla fine dell’Ottocento sia legata a quella del progresso tecnico (le luci in particolare).
Per diversi secoli, tuttavia, l'imitazione e non l'interpretazione hanno prevalso. Lo dice la parola stessa: tanto più che la tecnica permette una sempre migliore imitazione (vedi l'attuale smodato gusto per il video, per esempio), e continua ad essere una parte essenziale delle scene liriche. Usiamo il libretto, ma soprattutto le sue didascalie, e le scene. Molta gente confonde regia e scenografia tra l’altro. Così non mettiamo nulla in discussione.
Al contrario, la questione dell'interpretazione nasce da un'interrogazione sul senso, e non da un'illustrazione dei dati del libretto, e questa interrogazione è strettamente legata a ciò che un regista di oggi può mettere in discussione. Si possono mettere in discussione i personaggi, le situazioni drammatiche, i presupposti politici, ecc...
Tornando a Don Carlos, che è stato citato nella sua risposta. La cosa essenziale, cioè ciò che rende il rigore di una produzione, è che è dal testo che si devono dedurre le idee. Don Carlos può essere preso come un dramma di caratteri Filippo II, la regina, anche Eboli, il travagliato rapporto tra Posa e Carlos... tutto può anche essere messo in risalto, e allo stesso tempo Don Carlos può essere visto come un dramma politico. A suo tempo Calixto Bieito ha trasformato Carlos in un potenziale terrorista (nel senso moderno del termine), e questo è tutt'altro che falso, ma la messa in scena consiste poi nel mostrarlo e dimostrarlo, a rischio di scioccare.
Quando Chéreau fece il suo Ring a Bayreuth (1976), che provocò una tale rivoluzione, anche nel teatro stesso in cui alcuni erano furiosi, non disse nulla sul palcoscenico che non fosse nel testo di Wagner; per esempio nel secondo atto di Valchiria, egli chiarisce che la scena di Wotan e Brünnhilde è un monologo interiore. Lo sottolinea introducendo lo specchio e il gioco di sguardi da lui verso il suo riflesso, e per dire che questo monologo determina l'ordine del mondo, ha solo bisogno è un pendolo gigante. Non c'è bisogno quindi di discutere di costumi, contemporanei o meno, e di tutte le sciocchezze dette all'epoca. Qui siamo direttamente confrontati con il significato.
Come ognuno, abbiamo in testa le nostre immagini e le nostre rappresentazioni, e da esse dipende la questione dell'interpretazione. Dmitry Tcherniakov (La Traviata alla Scala, buata a non finire) è particolarmente sensibile alle immagini mentali, ai meandri psicologici, e spesso le sue letture derivano da questo gusto pur essendo particolarmente coerenti perché il libretto non viene mai tradito: viene interpretato secondo gli interessi personali del regista, ma se è coerente con la musica o con il testo, qual è il problema?
Fin da Brecht, sappiamo che il teatro ha una funzione sociale ed educativa, e che questa funzione didattica è oggi parte integrante di ogni lettura di un'opera, e soprattutto delle opere molto famose. Per il regista si tratta di fare vedere un “possibile senso” del testo e dell'opera, come Calvino l'ha capito: un'opera d'arte non finisce mai di dire quello che ha da dire. E sta al regista farlo dire, come un limone spremuto ad vitam aeternam.
Ciò che spesso sconvolge il pubblico è che vede cose che dice di non capire. Va all'opera per divertirsi, e si trova costretto a scervellarsi. "L'arte", ha detto il cabarettista Karl Valentin, "è bella, ma che lavoro!!!". Al pubblico di fare la sua parte di lavoro.
Parleremo della questione del direttore d'orchestra (che in questo processo è essenziale) in un altro momento, se vuoi.
Sei d'accordo con quello che dico?
Siccome trovo contraddizioni in quello che dici, e parte del problema lo eludi, mi è difficile dire se sono d’accordo o no.
Ad esempio, non ho purtroppo avuto la fortuna di assistere di persona al Ring di Chéreau e alla Traviata di Tcherniakov; li ho visti in DVD o in televisione, e per quello che ho potuto capire, il primo mi è sembrato straordinario, e la seconda scialba anziché ricca di meandri psicologici, come sostieni; ma entrambi comunque, a mio avviso, erano interpretazioni possibili delle vicende narrate e musicate, e delle psicologie dei personaggi, una geniale, l’altra riduttiva.
Per quanto mi riguarda, qui non c’è problema di liceità dell’interpretazione, ma di risultato; e, sotto questo profilo, francamente, degli interessi personali del regista non mi importa niente.
Lo spettacolo non è fatto per lui, ma per il pubblico.
Che tu sembri disprezzare, generalizzando; e che secondo te, da Brecht in poi, dovrebbe essere oggetto della funzione sociale, didattica ed educativa del Teatro.
Per la verità, la visione didattica, anzi sacrale, del Teatro risale alla Grecia antichissima; e anche la didattica di Brecht è figlia del suo tempo, della sua ideologia e del pubblico cui si rivolgeva.
In antichità, dopo le tragedie, veniva la commedia, e il pubblico si poteva divertire: il teatro esiste da sempre anche come intrattenimento.
Altra cosa il fatto che parte del pubblico desideri vedere sempre le cose che si aspetta, ma non è cosa in sé esecrabile, bensì umana; concordo però sul fatto che ciò che definisci “imitazione” non produce niente di nuovo, e che la protesta violenta contro il nuovo è frutto di intolleranza anziché di motivato dissenso; e che, ancora di più rispetto ad altre forme d’arte, il pubblico debba fare la sua parte di preparazione per capire ciò che va a vedere.
Ma costringere tutto il pubblico, compreso quello sufficientemente competente, ad andare a teatro per essere educato, vuol dire distruggere proprio il Teatro; sarò ignorante, ma se vado a vedere un’opera è per avere una emozione; e se al posto di una emozione ho una lezione, preferisco stare a casa; anche perché non è detto che se non capisco sia colpa mia anziché di chi mi vuole indottrinare.
Comunque, quello che volevano dire Eschilo, Sofocle, Euripide (a quanto pare contestato ai suoi tempi perché la musica non era del tutto sottomessa al verso) e anche Brecht era chiarissimo.
Anche quello che Verdi vuol dire nel Don Carlos è chiarissimo: non occorre essere un genio per capire che l’opera ha un forte contenuto politico, intrecciato ai drammi individuali; che la presenza dell’Inquisizione è opprimente; e che il personaggio di Posa rappresenta un ideale di libertà.
Ragione per la quale renderlo un astutissimo traditore sia di Carlo che di Filippo II, per regnare egli stesso, prevedibilmente secondo i dettami più spietati dell’Inquisitore che lo manovra, non nasce da una “interrogazione sul senso”, ma da uno stravolgimento del senso medesimo.
Stravolgere è interpretare?
Insomma, cos’è per te l’interpretazione?
A una domanda complessa difficilmente si può rispondere con una frase, un aforisma o una definizione da dizionario. Ma siccome lo vuoi... sai che sono per natura obbediente e sottomesso.
Interpretare può essere “spiegare o dare un significato”, ma può voler dire anche “dare un significato personale a un testo”, come ad esempio interpretare una partitura. Si tratta di definizioni che si trovano facilmente nei molteplici significati attribuiti alla parola nei dizionari.
La questione dell'interpretazione ha agitato le religioni per millenni, anche con conseguenze sanguinose, e non si finisce mai di interpretare...
L'ermeneutica o scienza dell'interpretazione è un concetto così importante, soprattutto nel Novecento, che ha trovato i suoi grandi filosofi a teorizzarne gli aspetti: Heidegger, Gadamer, Ricœur e altri. Capirai che in questo campo mi muova con cautela, come nelle sabbie mobili, e starò attento a non dare una risposta in bianco o nero. Procedo quindi in cerchi concentrici, umile ed esitante ...
Tuttavia, vorrei rispondere ad alcune delle tue osservazioni:
- Stravolgere è interpretare? Sappiamo che gli esegeti dell'oracolo di Delfi hanno talvolta "interpretato" gli oracoli distorcendoli. Non dirò che distorcere è interpretare, ma interpretare è davvero a volte distorcere o stravolgere.
Ti riferisci a Robert Carsen e al suo Don Carlo. Carsen è un regista che ha prodotto molto e nella massa non ha sempre mirato bene... Non ho visto lo spettacolo, ma è perfettamente possibile che abbia estrapolato perché sentiva che il soggetto "Don Carlo" era stato così arato che doveva assolutamente trovare, magari inventarsi una nuova situazione che rendesse il suo lavoro "originale" e permettesse una nuova lettura dell'opera, anche se ne contraddiceva il significato che di solito gli viene dato. Il tentativo di un ego per singolarizzarsi.
Inoltre, non sono un fan di Carsen, anche se mi sono piaciute alcune sue produzioni come il suo ultimo Idomeneo all'Opera di Roma lo scorso autunno. Quindi, su questa tua opinione, posso darti il buon esito, anche se l’amico Masiero che ha recensito lo spettacolo per Wanderer, la pensa diversamente.
Su Chéreau e Tcherniakov, ho citato le loro produzioni perché sono state entrambe accolte molto male dal pubblico, anche se rispettano lo spirito dell'opera e che ciascuna nel proprio ordine, sono stimolanti.
Siamo d'accordo anche sulle funzioni didattiche del teatro, o addirittura religiose, potremmo affrontare la questione dei Misteri del Medioevo, il cui spirito si ritrova in qualche misura nel Jedermann di Hugo von Hofmannsthal. E questo vale anche per la commedia: sappiamo che certe cerimonie e processioni in Grecia erano accompagnate da barzellette molto spinte che le commedie di Aristofane ricordano senza dubbio,
E siamo d'accordo su Brecht, ma Brecht ha irrigato tutto il teatro del Novecento e soprattutto tutta la scuola di regia, Strehler in primis, ed è per questo che mi interessa.
Proprio come te, non vado a teatro per ricevere una lezione, niente è più noioso del didascalico in una messa in scena, e non ho mai suggerito di andare a teatro come a scuola (forse il contrario... è l'ex insegnante che parla).
Ma i Greci, Wagner, Brecht, per quanto diversi, hanno dato al teatro una funzione determinante nella Città e un effetto fondamentale sui popoli. Il teatro, come ogni arte, illumina il mondo, e il regista dà colore a questa luce, che è un nuovo ruolo, pazientemente costruito nel teatro per tutto il Novecento.
Non credo che ci sia contraddizione tra l'intrattenimento e l'apporto "intellettuale" o didattico del teatro.
A scuola, si può imparare divertendosi, anche a teatro... Dico semplicemente che il teatro nella sua visione aristotelica è un teatro di emozioni, nella sua visione brechtiana un teatro di straniamento che è l'opposto dell'emozione, ma che sa anche procurarla, ed entrambi lasciano le loro tracce.
Amo il teatro che aiuta a trasformarmi. In questo, sì, sono Brechtiano.
All'opera, dopo un regno assoluto dei direttori d'orchestra, il regista è venuto, con i suoi occhi, a completare, arricchire, illuminare (idealmente) l'interpretazione musicale, tanto più se lui stesso è un musicista. E per adattare Charles Baudelaire, uno dei miei idoli (e non solo perché ha difeso Wagner in Francia in un momento in cui era fischiato), direi del direttore d'orchestra e del regista che saranno "Due grandi fiaccole,
specchianti le loro doppie luci
nei loro spiriti, specchi gemelli "
Probabilmente sto esagerando, perché tutto è aperto alla discussione, ma è certo che nell'opera lirica si tratta di due letture e quindi di due interpretazioni che lo spettatore deve sentire come "Una".
Seppellito dalla valanga di filosofi, scrittori, commediografi, poeti, compositori e registi che mi hai tirato addosso, sono stato salvato da un San Bernardo chiamato Bertoldo (come il personaggio di Giulio Cesare Croce che si inchinò al Re nel modo descritto nell’omonimo romanzo), il quale mi ha assicurato che posso fare a meno di prendere due posti a teatro, uno per me e l’altro per l’enciclopedia, non potendo consultarla durante lo spettacolo nel buio della sala.
Non pretendevo tanto chiedendoti cosa intendi per interpretazione; e neppure tanto poco come un rimando ai dizionari: chiedevo solo cosa intendi tu.
E, in fondo, me l’hai detto: “interpretare è davvero a volte distorcere o stravolgere”.
Questo è vero se sbagli ad interpretare; il che può condurre da una benevola risata della persona della quale hai interpretato erroneamente le parole fino ad una guerra atomica, ma resta un errore di interpretazione.
Oppure è vero se fai apposta ad interpretare male, e la conseguenza è un ingannare il prossimo, magari anche per il suo bene, ma resta una falsa interpretazione.
Non c’entrano per nulla Brecht e il teatro di straniamento (non nego certo l’esistenza di emozione intellettuale); e qualsiasi esperienza culturale è bella se aiuta a trasformarti (in meglio); resta che l’Opera da Tre Soldi dell’autore Brecht non è l’interpretazione dell’Opera del Mendicante di John Gay che l’ha ispirata, e che il regista, che ne so, del Fidelio, non ne è l’autore.
Come in tutte le rivoluzioni, qualcuno ci rimette e qualcun altro prende il potere; adesso è il regista che illumina idealmente l’interpretazione musicale, detronizzando il direttore d’orchestra; ma non va bene che regista o il direttore o tutti e due detronizzino gli autori dell’opera, sempre ché vogliano interpretarla; se vogliono demolirla, o, come talvolta capita, demolire il pubblico considerandolo piccolo borghese ignorante, presto o tardi resteranno senza lavoro per assenza dell’una e degli altri dai teatri; che già di per sé corrono il pericolo di sparire di fronte all’esasperata esigenza di massificazione degli eventi dal vivo.
Secondo la mia opinione, interpretare, per dirla grossolanamente e con riserva di approfondire, è fare emergere i significati (anche nascosti, anche inconsci, anche di contesto, anche contraddittori, anche criticandoli, ecc.) di un’opera altrui; ma poi comunicare l’interpretazione in un contesto teatrale è ancora un’altra faccenda, sulla quale penso varrà la pena di intrattenersi.
Divertente, l'”Opera dei Mendicanti” che citi è stata oggetto di una messa in scena di Carsen che non ha funzionato affatto male.
Sei un buon avvocato, sai come scegliere le parole del tuo avversario per fargli dire quello che non ha detto.
E una cosa che mi dà fastidio della sua argomentazione è che tu dia per scontato che i registi chiamiamoli "drammarturgici":
1) Lavorano per loro stessi e non per il pubblico...
2) Lavorano per loro stessi e non per servire l'autore
E così la messa in scena diventerebbe un esercizio masturbatorio con un effetto di piacere strettamente personale.
Dici sempre che non si deve dimenticare l'autore.
Negli allestimenti che apprezzo, l'autore non viene mai dimenticato e queste produzioni mi fanno scoprire aspetti dell’opera che non sospettavo. Arricchiscono il discorso sull'opera e nel complesso confermano che l'opera in questione è un capolavoro. Servono esattamente quello che ha detto Calvino e che tu hai giustamente citato.
E poi questo discorso su i registi che danno una lezione insopportabile a un pubblico piccolo borghese che è costretto a sopportare, è un cliché vecchio che non corrisponde a nulla di verificabile. Per me queste sono luoghi comuni senza interesse. Nessun grande regista si prende gioco del pubblico. Quelli cattivi forse, siano essi "drammaturgici" o no...
Infine, l'arrivo della messa in scena nell'opera lirica (grazie e dopo Wieland Wagner essenzialmente) ha arricchito la scena lirica, non l'ha portata fuori strada. La storia dell'"era dei registi" è un'esca per i giornalisti. Semplicemente la messa in scena ha iniziato a contare lì (nell'opera) dove non contava, e di conseguenza, ha guadagnato visibilità e disturbato le digressioni del pubblico che fa le fusa. Vedi, io rispondo ai tuoi cliché con altri cliché.
La domanda più interessante è se collochi i registi a livello degli artisti-musicisti, direttori d'orchestra per esempio, cioè artisti che praticano un'arte, un'arte chiamata musica. Ci sono anche grandi artisti tra i registi, e la regia può diventare un'arte, anche se non sempre è così. Ci sono tra gli allestimenti grandi capolavori che hanno il loro posto nella galleria dei grandi spettacoli, così come ci sono grandi interpreti di Bach, Wagner o Beethoven o Verdi che hanno il loro posto nel Pantheon degli artisti. Bach è immenso, e ancora più immenso dopo Glenn Gould, o Verdi dopo Toscanini o Abbado, proprio come Wagner dopo Boulez. Lo stesso si può dire della messa in scena: nella storia delle rappresentazioni del Ring, c'è un prima e un dopo Chéreau, così come c'era un prima e un dopo Wieland: e nessuno dei due era un mascalzone o un traditore.
Infine, concludiamo con Don Carlo, tu hai detto prima, e riprendo esattamente le tue parole: " Anche quello che Verdi vuol dire nel Don Carlos è chiarissimo: non occorre essere un genio per capire che l’opera ha un forte contenuto politico, intrecciato ai drammi individuali; che la presenza dell’Inquisizione è opprimente; e che il personaggio di Posa rappresenta un ideale di libertà.»
Prima Verdi non vuol dire: Verdi dice. E tocca a noi capire cosa vuol dire, e comincia l’interpretazione…Ma torniamo al Don Carlo.
Posso ammettere che Posa "rappresenta un ideale di libertà" ...ma non solo. Posa è l'unico personaggio che appare di sfuggita nella novella di Saint-Réal, pubblicata nel 1672, un po' di più con Schiller, nel 1787, ma non più di tanto, ed è soprattutto con Verdi che diventa uno dei protagonisti indiscussi dell’opera. È anche l'unico personaggio di finzione, poiché tutti gli altri sono personaggi storici, e quindi quello su cui la fantasia del regista (e del compositore, e del librettista) può esercitare più liberamente la propria immaginazione. Quindi mi chiedo: sì, rappresenta un personaggio "idealista", ma è un ideale di libertà? Rispetta il protocollo e la gerarchia della corte e diventa il favorito del re (Don Carlo lo rimprovera per questo) e di quale re! Si sacrifica, naturalmente, ma per le Fiandre o per salvare il suo amico? E di che natura è il rapporto con Carlo? Amicizia? Amore?
Come lo vedi, dire "ideale di libertà" non è così giusto, o almeno non abbastanza. Posa è contro la guerra, contro i massacri del Duca d’Alba nelle Fiandre, ma quale libertà difende? La libertà romantica? La libertà delle Fiandre sotto un principe illuminato che sarebbe stato don Carlo? Dai, sa benissimo, come Filippo II, che Carlo non è né un eroe né un politico... Insomma, tante domande basate sulla tua affermazione e tu fingi di chiudere il dibattito quando lo stai solo aprendo. Sì, l'interpretazione è complicata...
Mi pare che stiamo tergiversando.
Non ci sarebbe questa discussione se non ci fosse una reazione negativa di parte del pubblico non all’esistenza delle regie, ma a regie che non condivide; si tratta di capire perché.
Le regie solitamente contestate sono quelle che mostrano l’opera sotto prospettive diverse da quelle consolidate.
Ciò non vuol dire necessariamente che il pubblico non sarebbe disponibile ad accettare prospettive diverse da quelle consolidate, ma può essere anche che non le ritenga valide.
Può sicuramente sbagliare, anzi il consenso o il dissenso plebiscitari hanno esaltato deplorevoli mestieranti o umiliato grandi geni innovatori; ma una proposta nuova non è necessariamente valida.
Ciò indipendentemente dal fatto che sia programmaticamente “drammaturgica” (termine da te usato, se non sbaglio, per definire una regia che parta da qualcosa che precede la musica, ma questa è un’altra faccenda su cui eventualmente discutere); certamente una valutazione complessiva del dramma è oggi preferibile al seguire pedissequamente le didascalie del libretto, ma il problema è del tipo di dramma che viene proposto.
E qui si pone anche uno (non certo l’unico) dei problemi dell’interpretazione, che è quello fino a dove possa spingersi l’interprete senza snaturare ciò che si propone di interpretare.
Per me è difficilmente risolvibile a priori, per cui mi rimane solo il metodo induttivo, partendo dai risultati, per quanto opinabili.
Mi ero per questo permesso di suggerire di indirizzare il dibattito sulla comunicazione teatrale della proposta, la quale, se rimane incomprensibile se non viene spiegata con strumenti diversi dal palcoscenico, può al massimo essere accettata da chi ha un complesso di colpa se non capisce; ma hai sorvolato.
Quindi sgombriamo il campo:
- non sono stato io a farti scrivere che “interpretare è davvero a volte distorcere o stravolgere”; se poi parli di “arricchimento” dell’opera senza dimenticare l’Autore negli allestimenti che apprezzi, intendo che prima ti eri lasciato andare troppo avanti;
- il luogo comune sull’era dei registi è stato inaugurato da te: non sono stato io a farti scrivere che “dopo un regno assoluto dei direttori d'orchestra, il regista è venuto, con i suoi occhi, a completare, arricchire, illuminare (idealmente) l'interpretazione musicale”.
A parte ciò, sono d’accordo che:
- la moderna funzione della regia ha arricchito la scena lirica;
- il regista in questo quadro è un artista e non solo un organizzatore;
- sono esistiti ed esistono capolavori nelle messe in scena contemporanee;
- nessun grande regista si prende gioco del pubblico.
Ma i grandi registi non sono tanti; è difficile dire qualcosa di nuovo in opere che hanno avuto migliaia di messe in scena le più disparate e anche realmente innovative, e la tentazione della trovata a tutti i costi è umana; però anche la ribellione contro la trovata è umana per chi, anche non aspirando al Sublime, vorrebbe almeno non gli fosse riservato il banale travestito da genio.
Quanto al Don Carlo, vi sono un miliardo di sfaccettature che possono essere approfondite; la scelta di inventarsene una nuova, vuol dire volerle evitare tutte.
Non sono d'accordo con te quando dici che una messa in scena drammaturgica parte da ciò che precede la musica. Ci sono allestimenti che si basano sulla musica o che giocano sulle differenze tra ciò che dice il libretto e ciò che dice la musica. E questi sono allestimenti altamente drammaturgici.
Inoltre, la questione della distorsione è una questione insidiosa come le sabbie mobili, oltre quali limiti? In effetti si può contare solo su quello che senti tu, personalmente. Vorrei anche risponderti sulla questione dell’”era dei registi”. Per me è una semplice osservazione neutrale: quando qualcuno che non esiste o che non esiste molto comincia ad esistere, si ha l'impressione che la sua importanza sia eccessiva, mentre è solo una rottura dell'abitudine, non un'invasione. E quando dicevo “illumina” ecc…era solo un po’ di sorriso per farti reagire.
Sul Don Carlo, te la cavi con una piroetta, e riconosco bene il tuo gioco di schivata.
Bene, concludo con una proposta. Abbiamo ancora vari punti da discutere, concediamoci due giorni di pausa per pensarci e riprendere le discussioni all'inizio della prossima settimana, soprattutto sulla questione del pubblico, cosa ne pensi?
Prima di chiudere però volevo tornare sulla questione del recepimento da parte del pubblico.
Dirai che ti sto ancora schiacciando sotto i riferimenti, ma la questione della recepimento da parte del pubblico fa parte della più ampia riflessione sulla ricezione, fa parte dell'ermeneutica, teorizzata da Hans Robert Jauss ("Estetica della Ricezione", Guida 1988) essenzialmente sulla letteratura, e che di fatto pone la questione dell'arte in generale.
- Perché Le Misanthrope di Molière, scritto come una commedia, è oggi spesso veduto come un dramma umano.
- Perché il Cosi fan tutte di Mozart, considerato come un’opera leggera e senza importanza per tutto l’Ottocento, è vista oggi come un'opera amara, anche tragica e importantissima nella produzione di Mozart.
- Perché il Grand-Opera alla Meyerbeer, molto amato nell’Ottocento, è stato disprezzato fino a scomparire dai cartelloni per circa cinquant'anni e solo ora sta tornando di moda.
- Perché Wozzeck proposto alla Scala ben 30 anni dopo la sua prima nel 1925, fu fischiato come una cosa mostruosa? Si dà il caso che il pubblico - e quello della Scala avrebbe dovuto essere più avanzato degli altri - si sbagli.
ecc...ecc... Come piuma al vento, l'opinione è mobile, e la questione della ricezione da parte del pubblico di allestimenti fuori dall’abitudine (non sto discutendo della qualità intrinseca delle produzioni) viene da ciò che tu stesso specifichi: il pubblico non capirebbe ciò che gli viene proposto e quindi lo rifiuterebbe.
Invece non sono sicuro che si debba capire tutto dell'arte. Si capisce un dipinto di Jackson Pollock a prima vista? Lo stesso si può dire della Scuola di Atene di Raffaello…
Come spettatore, non mi disturba non capire, anzi, mi permette, una volta tornato a casa, di riflettere, di fare ricerche, di imparare, di andare oltre, di portare lo spettacolo dentro di me. Perché questa impazienza che lo spettacolo debba essere evidente per forza a prima vista? Non mi piacciono le verità ovvie e affermate a cui si deve credere automaticamente: come se La Traviata (o Wagner o quello che è) "dovesse essere fatta così e così".
Non credi nell'educazione del pubblico?
Accolgo la tua proposta di un momento di pausa. Aiuterà a riflettere.
Infatti, sei un po’ in confusione: non sono stato io a dire che è il Poema che precede la musica, basta leggere il tuo blog; per cui devi metterti d’accordo con te stesso.
Sul Don Carlo alla Fenice, non schivo proprio niente; se vuoi che infierisca, dimmelo; anche perché, dietro una veste professionale e tecnica non discutibile, le banalità sono tante; ma non mi pareva di dovere insistere su una vittima che ha avuto la ventura di essere presa per caso ad esempio, e c’è di molto peggio.
Nell’arte c’è sempre un mistero, è la stessa creazione; e il mistero è affascinate.
Tuttavia, sotto il profilo della comprensione, non metterei insieme Pollock e Raffaello.
Interessante il problema del perché certe opere di prosa o musicali siano recepite ora in modo assai diverso dal momento in cui furono concepite, forse per me troppo profondo; mi sforzerò di analizzarlo.
Ma mi fa terrore l’ipotesi che il pubblico debba essere educato: da chi?
Pensaci.
Abbiamo ricevuto una lettera di un famoso critico italiano che segue il nostro dialogo. La pubblichiamo perché illustra perfettamente le nostre tematiche e fa da transizione per la prossima ripresa della nostra riflessione.
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STORIA DI UNA INDIMENTICABILE MESSA IN SCENA DEL TROVATORE
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di Bufalino Tracotanti
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Avendo seguito sulla vostra rivista il dibattito sulle regie, desidero offrire a sostegno della libertà di interpretazione e della fantasia registica il racconto di una mia meravigliosa esperienza diretta, che mai dimenticherò.
Sono direttore e critico della autorevole rivista musicale “Der Nusskracker”; e ho l’onore di conoscere personalmente il grande regista Frank E.Stein, il quale ha talora la bontà di consultarmi, prima di affrontare un nuovo impegno.
Egli infatti è rimasto entusiasta della mia recensione del suo Parsifal del 2010 all’Opera Pocket di Liegi, genialmente ispirato al Poeta Oskar Panizza 1, il quale, come è noto, aveva definito quest’opera “foraggio spirituale per pederasti”, pagando con la galera, e i cui versi sono stati messi in musica da Richard Strauss.
Quando fu invitato per la regia del Trovatore dalla Scala, con la quale fino a quel momento non aveva lavorato, venne a casa mia per uno scambio di idee. Per prima cosa mi chiese: “Com’è il pubblico della Scala?”
- “Retrogrado, presuntuoso, superficiale e intollerante”, risposi.
Gli si illuminarono gli occhi; “Meraviglioso! – gioì – Sarà uno scandalo senza precedenti! Assaliranno il palcoscenico! Cercheranno di linciarmi! Picchieranno gli agenti intervenuti a mia difesa!”. E, più riflessivo: “Oltre a tutto sarà un accredito per i teatri tedeschi”.
Gli chiesi come aveva pensato il suo Trovatore.
- “Ecologico! Ecologico! Non l’ha mai fatto nessuno così!”
“Davvero unico! – dissi estasiato - Ma come ha avuto questa ispirazione, Maestro? E come intende realizzarla?”
- “E’ stata una lunga incubazione. Ho dovuto scartare molte ipotesi: è un’opera che gira da troppo tempo e che ha visto interpretazioni di ogni tipo. L’avevo pensata come denuncia delle discriminazioni nei confronti degli zingari, come ambientata durante la guerra civile del Kosovo, come incubo di Azucena, come ripudio della sessualità (i protagonisti delle opere di Verdi non riescono mai a concludere), come esempio psicopatologico della malicious mother syndrome, come la follia di un piromane, come un film dell’orrore, come una trasmissione televisiva per bambini che li fa piangere, come un litigio in una famiglia piccolo borghese, come una lite di condominio, ed altro ancora. Avevo persino concepito un rapporto incestuoso (Massimo Mila per primo aveva rilevato che Manrico è più appassionato figlio che non amante), in assenza di personaggi cui poter attribuire un rapporto omosessuale (Ruiz è un po’ poco), come invece nel Don Carlo: ma tutto già visto.
Poi mi è venuta l’illuminazione: che cosa può dire Il Trovatore sui maggiori problemi del momento, cioè il riscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico? Da questo punto di vista, Il Trovatore è attualissimo, perché le pire riscaldano e il fumo delle pire è altamente inquinante.
Che poi Verdi avesse un animo ecologico è storico, essendo nota la sua passione per l’agricoltura, praticata nella sua amata tenuta di Sant’Agata.
Un aspetto sempre fin qui trascurato nel Trovatore è l’evidente fastidio di Verdi per l’abuso dei focolai per le pire: che però è senz’altro cruciale per l’opera.
Si conosce poi l’intervento continuo di Verdi sul librettista Cammarano, che si è evidentemente adeguato.
Ho già parlato con lo scenografo. La scena deve essere quella di una terra desolata, praticamente nuda, con la sola eccezione di quella del Chiostro della Croce, che rappresenta l’Oasi Spirituale e quindi deve avere alberi. Costumi in parte senza tempo, in parte contemporanei, per evidenziare che solo di recente si ha coscienza dei citati problemi. Movimenti coreografici dovranno di tanto in tanto rappresentare in controscena piante che muoiono. Azucena e il Conte di Luna rappresentano gli inquinatori con interessi contrapposti, capitalistici il primo, proletari in via di sviluppo la seconda. Manrico e Leonora rappresentano gli ecologisti, il primo ingenuamente, come Tarzan, la seconda ideologicamente consapevole, sempre accompagnata da una bambina figurante con l’aspetto di Greta Thunberg. Tra l’altro, bambini inquietanti in scena fanno sempre un loro effetto”.
“Ma ne ha parlato con il direttore d’orchestra? A proposito, chi è?”
- “Il grande direttore italo americano Dick Tatore. Ho dovuto fare alcune concessioni, ma marginali. Ha voluto essere lasciato libero di strangolare i cantanti con tempi catatonici, da una parte ritenendo che il personaggio di Manrico abbia affinità con quello di Sigfrido, pur con lo svantaggio di non essere orfano e di avere una finta madre possessiva ed isterica, con la conseguenza di dovergli conferire una solennità wagneriana (con raddoppio degli ottoni); dall’altra perché non sopporta protagonismi altrui dal punto di vista musicale. Sul resto c’è simbiosi.”
Fui presente alla sera della prima, piena di gentildonne ingioiellate e impellicciate di animali costosi, uomini dall’aspetto mondano in elegantissimi smoking, alla presenza di un Ministro che non aveva mai messo prima piede in un teatro, accompagnato da una vistosa signorina in minigonna, spaesata ma euforica.
La Prima parte, nonostante l’apparizione di Ferrando in mutande (cosa ovvia per un familiare che dorme davanti alla “porta che immette agli appartamenti del Conte di Luna”: così il libretto, cui il regista aveva dichiarato in conferenza stampa di volersi attenere) e quella di Manrico vestito come Tarzan (cosa che con il libretto non contrasta, non essendovi indicazioni in proposito), passò via senza particolari reazioni degli spettatori, curiosi di vedere il resto.
La Parte seconda fu applaudita quando gli zingari, sporchi e miseramente vestiti, vennero rappresentati mentre rubavano i portafogli degli abitanti delle propinque ville “per procacciarsi un pan”; mentre qualche mormorio di stupore vi fu quando Manrico, per evitare simbolicamente l’inquinamento, spense con un secchio d’acqua il fuoco davanti al quale stava Azucena.
Un incidente si verificò nella scena del chiostro; poiché Leonora canta a Manrico “Sei tu dal ciel disceso, o in ciel son io con te”, occorreva appunto far scendere il Trovatore dall’alto e fargli riportare in cielo Leonora.
In coerenza con la spiritualità di Manrico-Tarzan, e con la fulmineità della sua apparizione, era previsto che egli arrivasse lanciandosi da un alto albero con una liana, afferrasse Leonora al volo e la trasportasse su un albero opposto; ma, non essendosi alcuno occupato di quanto peso potesse portare la liana, e pesando il tenore 130 Kg e la soprano 142, la stessa liana si spezzò, e Leonora si slogò una caviglia.
Prima dell’inizio della terza parte, fu annunciato che, nonostante l’indisposizione, la soprano avrebbe continuato a cantare, ma dietro le quinte e sostituita in scena dalla figurante muta che faceva la parte di Greta Thumberg.
Fu un incidente fortunato, perché vedere una bambina esile vestita con gli abiti del prosperoso soprano che le cadevano da tutte le parti era veramente toccante, e lasciava l’angoscioso dubbio che davvero il Conte potesse calpestare il suo cadavere, senza salvare il Trovatore.
Tant’è che il Regista usò questa modalità per tutte le recite successive.
Per farla breve, dopo la scena dell’accampamento, privata della banale presenza degli armigeri, il cui bellicoso canto era rappresentato con contorcimenti del Conte che interiorizzava così il suo furore; dopo il vano tentativo di spegnere l’orrenda pira con i seguaci di Manrico vestiti da guardie forestali; dopo avere denunciato il sovraffollamento delle carceri, mettendo nella cella di Azucena e Manrico una disgustosa quantità di cenciosi esseri ridotti all’osso, il finale era fulmineo, del tutto in linea con la concisione verdiana: quando il Conte grida “E vivo ancor!”, Azucena prende la pistola che Leonora aveva portato a Manrico per farlo fuggire, e gli spara addosso un intero caricatore; poi sventola una bandiera di Greenpeace.
La reazione degli spettatori fu meno traumatica di quanto previsto, perché dopo otto ore di spettacolo dovute ai tempi solenni e riflessivi del Direttore d’orchestra, la maggior parte di quelli rimasti fino alla fine si erano dati ad una fuga disordinata dal teatro, calpestando i più anziani caduti a terra, e anche la esigua minoranza dei contestatori era piuttosto infiacchita; quello che però importa è che tutta la critica fu concorde nell’affermare che lo spettacolo Stein-Tatore del Trovatore aveva aperto nuove prospettive nell’orizzonte interpretativo verdiano.
In particolare, sulla vostra rivista si lesse che “Il regista Frank E. Stein ha rivelato gli aspetti più rivoluzionari e attuali dell’Opera, senza per questo allontanarsi dal suo spirito originario: questo meraviglioso spettacolo segna un confine, oltre il quale l’interpretazione verdiana non potrà più essere la stessa. Quanto al pubblico, non merita gli spettacoli più intelligenti che gli vengono proposti. E’ ora che qualcuno lo educhi, o gli vieti l’entrata a teatro”.
Si capirà quindi perché leggo con una certa irritazione le rozze risposte di un certo Jacobi alle sottili e dotte argomentazioni del dott. Cherqui; ho sentito il dovere di raccontare la mia esperienza per mettere le cose a posto.
Grazie, caro collega, per aver mostrato così bene come Il Trovatore può dare luogo a letture profonde e sottili. Volevo solo far capire al lettore che Il Trovatore è senza dubbio una delle opere più difficili da mettere in scena, con un libretto così realistico e i suoi personaggi di raffinatezza proustiana. Volevo anche ricordare che nel 1989 Gianfranco Bettetini pubblicò, con Bompiani a Milano, un romanzo delirante sul tema dell'inesauribile Trovatore, storia di un piccolo funzionario scaligero la cui ossessione era una messa in scena "popolare" del Trovatore. (Gianfranco Bettetini, Deserto sulla terra: Variazione favolistica sul Trovatore di Giuseppe Verdi, Milano, Bompiani 1989)
Aggiungo, e i lettori di questo sito lo possono ricordare, che qualche mese fa abbiamo recensito La Valchiria "ecologica" del Teatro dell'Opera di Göteborg.
O come la realtà incontra la finzione.
Dopo questa pausa sorridente oltre che sapiente, possiamo riprendere il dialogo...
Per riaprire il dibattito, vorrei innanzitutto rispondere alla tua osservazione sul fatto che sono stato proprio io a sottolineare l'anteriorità del "poema” di Wagner rispetto alla musica. Ma questo non significa che il regista non tenga conto della musica e non prenda in considerazione l'opera nel suo insieme. Ci sono registi, che non necessariamente conoscono la musica, che si attengono al libretto, e poi la discussione con il direttore d'orchestra può portare a dei cambiamenti o a dei clash. Altri conoscono la musica e quindi la collaborazione è diversa, forse non tanto per il significato quanto per i ritmi, il tempo, il respiro dell’opera, perché la musica e la regia devono necessariamente andare nella stessa direzione. Ricordo che Strehler provò Le Nozze di Figaro a Versailles con Sir Georg Solti nel 1973, e si sedeva dietro di lui cantando apposta la musica con un ritmo diverso... da cui il disagio...
Chiudo l’argomento e provo a rispondere a te quando dici “Ma mi fa terrore l’ipotesi che il pubblico debba essere educato: da chi?”.
Di fronte a una produzione, qualunque essa sia, ho sempre sentito fischiare, ed è estremamente raro che una produzione raccolga unanimità in un modo o nell'altro.
Detto questo, come spieghi il fatto che a Lione, o a Zurigo, il pubblico reagisca meno aggressivamente a certe produzioni rispetto, ad esempio, a quello della Scala?
Perché una programmazione diversificata, aperta e sostenibile ha permesso a questo pubblico di diventare più disponibile. Una disponibilità che il pubblico scaligero ha avuto dopo gli anni di Abbado Grassi, Siciliani e Mazzonis un po' più di quanto non sia ora. Educare il pubblico non vuol dire noia né dittatura del comitato centrale, vuol dire proporre una programmazione aperta, in modo che il pubblico abbia accesso regolare a tutti i tipi di visioni sceniche, e per un lungo periodo di tempo, permettendogli anche di avere accesso a una programmazione teatrale (di prosa) altrettanto aperta.
Un'ultima osservazione: Brecht ha chiesto al teatro di avere una funzione civica, e la Germania è un paese dove si va a teatro molto presto, perché in ogni città di medie dimensioni c'è un teatro che programma opera, teatro e balletto. E così i tedeschi da l’età giovanile sono abituati a vedere tutto.
In Francia nell’ Ottocento, alla fine del secolo, durante i primi anni della Repubblica, nelle città, poco a poco, il municipio, la chiesa e il teatro erano affiancati, oggi, se l'edificio del teatro esiste ancora, è spesso usato per qualcos'altro (cinema nel migliore dei casi, supermercato o banca nel peggiore). Guarda il numero di teatri chiusi in Italia. Ci sono circa 800 teatri nel Bel Paese, quanti sono aperti? Hai seguito la storia del Teatro di Treviso negli ultimi vent’anni abbastanza per vedere il disastro di una non-politica.
Meno spettacoli vengono proposti meno il pubblico considera il teatro come necessario, e più lo considera solo un passatempo. Il teatro e l'opera dovrebbero essere necessari non come scuola – hai paura del termine - ma come “previdenza sociale”, almeno come valvola di sicurezza per la società. Da qui, per me, la necessità di considerare il pubblico come un elemento colto, cioè abituato e di mentalità aperta.
Sono le autorità pubbliche che dovrebbero essere consapevoli di questa necessità, perché sono anche responsabili della cultura, ed è per questo che sono decisamente contrario alla politica delle fondazioni che fioriscono per il solo motivo dell'opportunità economica.
Per uno Stato (o una Regione, o un Comune) la diffusione della cultura dovrebbe essere considerata una delle sue funzioni essenziali, e la cultura non è, come pensano gli americani e i (falsi) liberali, l’affare del singolo ma della collettività. Ciò non impedisce che ci siano anche privati nel mondo del teatro, come l’ospedale pubblico non impedisce le cliniche private.
Parto dalla fine della tua perorazione.
Non ho paura del termine scuola, ma non me la sento neppure di impartirla in via generalizzata al pubblico del teatro, il quale, per quanto composito, è una minoranza generalmente più colta della media degli spettatori di altri tipi di spettacoli.
Il primo problema è di allargare questo pubblico; e qui davvero ci vorrebbe la scuola, la quale in Italia trascura completamente la musica e il teatro. Ci sono teatri che tentano talora di supplire a questa mancanza, coinvolgendo istituti scolastici, ma resta un intervento non sistematico.
C’è poi il problema dei costi, che negli eventi massificati possono essere coperti dal pubblico, ma che nel settore teatrale - ed operistico in particolare – non possono esserlo, non fosse altro che per lo spazio fisico che può ospitare un numero limitato di utenti; quindi soluzioni privatistiche che non siano mecenatismo a fondo perduto sono inadeguate, anche ad inventarsi forme collaterali di incasso; occorre l’intervento pubblico, oltre che dello Stato, anche degli Enti Locali, se si vuole una reale diffusione della cultura teatrale e musicale.
E’ certo un delitto disperdere un patrimonio culturale e una funzione dei luoghi dedicati, riducendo i teatri a manifestazioni a loro estranee o chiudendoli, in Italia in particolare, ove a quanto pare si è propensi a non sfruttare l’enorme quantità di beni artistici accumulata nei secoli, e a buttare via demagogicamente danaro per i c.d. “eventi”.
Ma, purtroppo, allo stato, non resta che ricordare la famosa risposta “Vaste programme...” di De Gaulle a chi gli aveva gridato “«Mort aux cons!”.
Ciò però non ha nulla a che fare con il problema delle reazioni del pubblico a certe regie; e vorrei ricordare tra l’altro che non è stato il pubblico italiano a fischiare il Ring Boulez-Chéreau.
E’ senz’altro vero che proponendo più spettacoli, e quindi più interpretazioni, il pubblico si abitua a vedere di tutto; ma il fatto che a Zurigo o a Lione il pubblico sia più disponibile vuol dire solo che il tipo di spettacoli che gli vengono proposti è di suo gradimento, non necessariamente che la filosofia che a tali spettacoli sta dietro sia indiscutibile o migliore di altre.
Sei tu che parti da un preconcetto intollerante, vicino alla visione di Arthur Danto dell’arte concettuale, che non è più in grado di dare una definizione di se stessa, ed ha bisogno della filosofia per esplicitare le proprie ragioni d’essere; l’estetica non ha senso, va stimolata la mente.
E chi la mente ce l’ha già attiva, e non ritiene stimolante quello che gli viene offerto, può dissentire? Quello che sembrava innovativo ieri diventa ai nostri tempi rapidamente più tradizionale del vecchio; nulla di male se non si vedono quasi più costumi dell’epoca in cui l’opera sarebbe ambientata, i brandi sono sostituiti dai mitra, le scene sono tendenzialmente atemporali, ma insomma non è oggi una grande novità; soprattutto, le interpretazioni cerebrali e le trovate spiazzanti sono la regola diffusa; benissimo se sono di buona qualità, ma purtroppo dopo i profeti arrivano in gran quantità i seguaci conformisti.
E anche gli italiani si sono abituati. Certo dall’arte c’è sempre da imparare, dal punto di vista intellettuale ed emotivo, o dall’uno o dall’altro a seconda delle sensibilità individuali; credo che chiunque vada a teatro ci vada anche per questo.
Ma non ti viene mai il sospetto che il pubblico, più che prendersela con le novità, possa prendersela con chi le millanta? E che chi dissente possa essere meno conformista di chi applaude?
Sulla questione dell'allargamento del pubblico, sono completamente d'accordo con te, ma l'esperienza che ho fatto in Francia, o almeno nella mia regione, dove molti adolescenti vanno all'opera, con finanziamento della Regione, dove ci sono molti progetti intorno alla musica e all'opera sul territorio e per tutte le età, è :
- che da un lato, funziona molto bene e i giovani amano l'opera, compresi – e forse di più- spettacoli difficili (Giovanna d’Arco al rogo, regia di Romeo Castellucci , oppure Lulu di Berg)
- dall'altro, non è necessariamente per questo motivo che questi giovani vanno poi nei teatri quando sono più grandi.
In Italia non c'è motivo per cui non debba essere lo stesso: ricordo che circa vent'anni fa ho preparato ragazzi per una rappresentazione di Don Giovanni (Peter Brook, Daniel Harding, al Piccolo Teatro) e gli studenti (una Scuola Media della periferia di Milano) erano entusiasti della rappresentazione.
La questione è forse più profonda: da un lato, e nonostante tutto, l'opera rimane un'arte "di classe" nel senso che viene vissuta come un'arte di lusso. D'altra parte, i teatri d'opera sono rari in Francia, più rari ancora che in Italia (nella regione intorno a Grenoble, non c'è un teatro d'opera, bisogna andare a Lione (100 km) o a Saint Etienne (150 km) per trovarne uno, a meno che non si vada a Ginevra (140 km) ma con prezzi svizzeri.
Nella stessa Grenoble, il pubblico della musica classica è piuttosto vecchio, e l'orchestra per lungo tempo a Grenoble "Les musiciens du Louvre", piuttosto famosa sotto la direzione di Marc Minkowski, ha avuto un'azione minima sul territorio, malgrado di qua e di la piccoli interventi nelle scuole
Se in Francia esiste una rete assai fitta per la prosa e la danza, soprattutto la danza contemporanea, non ce n'è una per l'opera e la musica classica, che sono i parenti poveri in zone remote, ma anche in città medio grandi, che non propongono mai la lirica.
Ma la dove il pubblico è abituato a spettacoli di vari stili, diventa più aperto e disponibile. Un esempio che trovo eccezionale: qualche anno fa a Lione, il Festival di Primavera si proponeva di presentare opere brevi degli anni 1920, strutturate intorno al Trittico di Puccini. Ma invece di presentare Il Trittico in una sola serata, sono state proposte tre serate in cui Gianni Schicchi abbinato a Eine Florentinische Tragödie di Zemlinski, Suor Angelica a Sancta Susanna di Hindemith e Il Tabarro a Von heute auf morgen di Schönberg. Grande successo, e il pubblico ha visto tre opere magnifiche e sconosciute, con Il Trittico in aggiunta, in contesti contemporanei. In questo modo apriamo nuovi orizzonti e diamo al pubblico la possibilità di essere disponibile.
Infine, che i grandi registi siano rari, e che il loro genio sia imitato, condivido in pieno quello che dici. Basta guardare gli allestimenti in stile Wieland Wagner che fiorirono negli anni '60 o '70: ci sono le mode e quindi i seguaci. Lo stesso oggi per l'utilizzo di video o letture politiche di alcune opere (spesso con grandi fallimenti). Ad esempio, se Wieland Wagner una volta disse (nel 1965) che per lui il Walhalla era Wall Street, altri ne hanno fatto il Campidoglio di Washington o la Casa Bianca, il Cremlino o la Cancelleria del Reich hitleriano. Tutto questo va poi nel dimenticatoio della storia teatrale.
Lo so che il buon senso è nemico dell’immaginazione, e mi spiace un poco che tu ne faccia uso, finendo per ammettere che letture fallimentari di opere esistono anche da parte di registi venuti da Cielo in terra a miracol mostrare: ammiro infatti il tuo entusiasmo per l’esplodere del fenomeno registico nell’Opera dal XX° secolo (circa).
La curiosità e la disponibilità sono alla base della conoscenza; una volta che si ammetta che non si debba obbligatoriamente essere disponibili a tutto, e che non tutto è relativo, siamo d’accordo.
Però ci andrei piano con il definire opere “alimentari” quelle che attraggono il pubblico; forse ti riferisci non tanto alle opere, quanto alla loro messa in scena.
Ma anche qui, è bene essere realistici: una immaginazione può scatenarsi anche proprio nell’usare genialmente mezzi poveri, persino l’uso rinnovato di vecchi allestimenti può diventare straordinario.
Concordo con l’opinione che una “tavolozza” di opere con approccio diverso per ciascuna sarebbe importante ed amplierebbe la sensibilità critica del pubblico, e che non serve che tutte le messe in scena siano firmate da un genio; anche perché persino i geni possono sbagliare.
Però se il regista non è un genio, farebbe bene ad essere umile, e farsi bastare il mestiere, che è la base per la riuscita di qualsiasi cosa.
Perché poi c’è la musica.
Se è vero che il moderno concetto di regia ha arricchito l’opera, è anche vero che molte opere sono state create neppure supponendo l’esistenza di un regista che non fosse semplicemente un organizzatore; l’inserimento di creatività completamente diverse in queste opere è cosa delicata per il loro equilibrio.
Certo grande regia e grande esecuzione fanno l’evento indimenticabile; ma a mio parere, se la regia non funziona uno può sempre chiudere gli occhi e abbandonarsi alla musica che funziona; mentre fatico a immaginare il contrario.
Se poi nessuna delle due funziona, siamo al disastro; ma capita anche che, pur di assistere ad un’opera, qualcuno si accontenti lo stesso.
Non ho alcun entusiasmo per "l'esplosione del fenomeno della messa in scena dell'Opera dal XX secolo". È un dato di fatto, essenzialmente dovuto, oltre che alle riflessioni dei teorici, al progresso tecnico che ha permesso ai cantanti/attori di muoversi e allo spazio scenico di espandersi. Ma se uno deve muoversi, deve anche sapere come e perché: da questo s’impone l’intervento del regista. E oggi non si potrebbe fare a meno. È un dato di fatto di cui tu stesso non potresti fare a meno.
Lo stesso vale per quella che io chiamo "disponibilità". Essere disponibili non significa accettare tutto, significa essere pronti a vedere tutto senza idee preconcette, poi dopo si può amare o non amare. Significa essere tolleranti, e anzi - contrariamente a quanto si dice - rimanere nel “relativo”. Non ci sono verità scritte nel marmo quando si tratta d’arte. Rimprovero un certo pubblico per la sua intolleranza e il suo rifiuto di entrare in una logica o in una visione che non gli appartiene. E odio l'intolleranza, e odio i fischi di fronte a regie che si discostano dalla routine autostradale.
Non hai capito il mio concetto di opere "alimentari", dove non mi riferisco affatto alla messa in scena, ma all'uso che i manager dell’opera fanno delle opere famose e preferite dal pubblico per riempire i teatri e gli incassi: Bohème Carmen, Tosca, Traviata per esempio. La maggior parte delle volte la messa in scena è mediocre, o se è buona, spesso è vecchia e non mette più in discussione nessuno (ad esempio la Carmen di Calixto Bieito che hai visto alla Fenice, che ho visto a Parigi e che i viennesi vedranno la prossima stagione). Bieito è un nome che spaventa e sa di zolfo, ma la sua Carmen più che ventenne ha perso ogni valore provocatorio, anche se rimane una corretta messa in scena. Carmen, appunto, è l'opera preferita della televisione francese, praticamente esclusiva. Quello che io chiamo "alimentare" è ciò che riempie le casse del teatro e basta. Senza nessun'altra proposta artistica né musicale o scenica, perché il pubblico verrà comunque. Non mi sembra che sia rispettare il pubblico.
Quando dici invece "una vecchia produzione può diventare straordinaria", sono pienamente d'accordo, se era un capolavoro quando è stato creato e se viene conservato come testimonianza - e spesso funziona ancora. Sono sicuro che il Simon Boccanegra di Strehler continuerebbe ad essere affascinante per una produzione di poco meno di 50 anni. Trenta cinque anni fa a Bologna, se ricordo bene, Ronconi realizzò I Vespri Sciliani, ispirati a scenografie ottocentesche. Tutto aveva funzionato molto bene. E Ronconi diceva giustamente: "La tradizione è qualcosa che si rinnova continuamente e incorpora nuovi contributi. La routine, no”. Sono pienamente d'accordo con questa visione e non ho nulla contro la tradizione, se usata con intelligenza. Inoltre, nei miei testi mi preoccupo sempre di ricordare la storia delle opere e delle loro rappresentazioni. Questo mi sembra essenziale.
La questione del genio è un falso problema: ci sono cinque geni nei registi di oggi e dieci che sono ottimi artigiani. E poi ci sono tutti gli altri...
Per quanto riguarda le opere realizzate prima dell'esistenza della messa in scena e strutturate in modo tale che la loro messa in scena sia “delicata”, come dici tu, prendiamo come esempio le opere barocche che vanno molto di moda, Noto che dopo Pizzi e gli allestimenti "barocchi" che hanno fatto la sua fortuna (Orlando ecc...) l'imitazione (falsa) dello splendore barocco ha lasciato il posto a un lavoro sull'opera e sui personaggi che poteva dare produzioni di grande valore (penso a Atys di Lulli per esempio negli anni '80, e più recentemente ad Armide di Gluck (Bieito, Komische Oper di Berlino) o a una bella Alcina a Zurigo (Christof Loy). I registi affrontano l'opera mettendone in discussione la trama, mettendone in discussione i rapporti tra i personaggi, cercando di rispettare l'opera o mettendo in evidenza le qualità che la fanno andare oltre il solo intrattenimento aulico. Mi sembra che così si renda più ricca la conoscenza di questo repertorio.
Per finire, non sono assolutamente d'accordo con te quando dici che devi chiudere gli occhi e ascoltare la musica se la messa in scena è brutta. Per un wagneriano, l'opera è la somma del palcoscenico e della fossa, impossibile chiudere gli occhi, è un reo di lesa-opera! Ecco perché coloro che a Bayreuth per evitare di vedere la messa in scena indossano maschere da sonno sono dei cretini. L'opera è qualcosa da vedere e da sentire - anche se non va bene la regia... Succede anche che la messa in scena sia bella e la musica non funzioni, è successo molto spesso e lo spettacolo è altrettanto brutto.
Per me l'opera è un tripode, la musica, il canto, il teatro, Se tutti e tre sono grandiosi, è il trionfo. Se due vanno bene, passa comunque, e se una cosa sola funziona, non va bene più niente.
Rimane come dici tu che si può andare all'opera per il solo piacere di andare all'opera, o più in generale per il solo piacere dello spettacolo qualsiasi sia, perché no? Ma che interesse? Sono umano, quindi sono curioso e pertanto mi pongo delle domande. Mi piacciono più le domande che le risposte. E l'arte è interrogazione, e non risposta.
Oscilli come un pendolo.
Cercare di fare incassare un teatro non è un delitto; ti contraddici due volte, quando dici che il tuo concetto di “opere alimentari” non si riferisce alla messa in scena, ma poi lamenti che quello che non va è mettere in scena opere famose senza proposte artistiche interessanti; e dai degli intolleranti a quelli che ritengono non interessanti le proposte artistiche che interessano a te, dicendo che provi odio per i loro fischi.
Noto poi che l’intolleranza è attribuita solo al dissenso, e non al tipo di proposta; mentre può essere intollerante anche pretendere di farti entrare in una logica che non ritieni condivisibile, facendoti passare per ignorante o addirittura stupido escludendo che tu possa averla capita, altrimenti non dissentiresti.
Il preconcetto (anche verso “un certo pubblico”) fa male a tutti.
Il pubblico potrà sbagliare, ma ha tutto il diritto di dissentire; personalmente, mi infastidiscono i fischi, perché, di fronte ad una cosa che reputo presuntuosa senza sostanza, preferisco un gelido silenzio, che fa più male; mentre i fischi sono reazione ingenua che può addirittura valorizzare chi ne è oggetto.
Se appena posso, applaudo; perché mettere anche solo dignitosamente in scena un’opera è cosa assai difficile, e gestire un teatro è ancora più difficile.
Ma queste sono discussioni che riguardano approcci personali non tanto all’Opera, quanto all’arte in generale; siamo umani tutti e due (io un po’ di più, perché non sono ideologicamente wagneriano), abbiamo tutti e due la fortuna di poterci porre delle domande, e la routine non è al centro dei nostri principali interessi; anche se, per quanto mi riguarda, ogni tanto riposarmi e difendermi dal Sublime mi fa bene.
Ma avevamo iniziato una discussione teorica che era più interessante: cos’è (oggi, ma anche ieri) l’interpretazione? E, di conseguenza, qual è il rapporto tra l’interpretazione e il suo oggetto? E, ancora di conseguenza e nello specifico, la funzione della regia nell’opera lirica?
Qui mi sembra ci sia il dissenso vero: tu, nel definire l’Opera, fai riferimento ad un tripode costituito da “la musica, il canto, il teatro”; oppure alla “somma del palcoscenico e della fossa”; ebbene, dato e non concesso che le gambe del tuo tripode non siano due (il canto fa parte della musica) o addirittura una (il teatro potrebbe benissimo ricomprendere le altre due), con gravi problemi di stabilità; dato invece senz’altro atto che l’integrazione tra palcoscenico e fossa orchestrale è essenziale, tu non menzioni mai l’Autore (o gli Autori).
E quando parli dei registi, sostieni che “affrontano l'opera mettendone in discussione la trama, mettendone in discussione i rapporti tra i personaggi, cercando di rispettare l'opera o mettendo in evidenza le qualità che la fanno andare oltre il solo intrattenimento aulico”.
Per me, le qualità che fanno andare l’opera al di là del solo intrattenimento aulico, sono, se ci sono, intrinseche nell’opera stessa, e il rispetto dell’opera medesima è il minimo sindacale; difficile da raggiungere mettendone in discussione (concetto per la verità non chiarissimo) trama e rapporti tra personaggi.
Ritorniamo al punto: cos’è interpretazione?
Chiarito questo, ammesso che sia possibile, si potranno meglio capire anche le reazioni, positive o negative, del pubblico, non su opere nuove, che è un’altra questione, ma sulle messe in scena di quelle che sono nate in altri contesti storici.
Non sto oscillando come un pendolo, ti sbagli e mi stai facendo incavolare. Se continui così, mi confinerò all'Aventino, rimarrai solo, senza nessuno che contraddica la tua solita malafede.
Ancora una volta, stai sbagliando nelle tue accuse. Nessuno ha detto che cercare gli incassi è un crimine, e so che per gestire un teatro bisogna equilibrare la programmazione bilanciando Wozzeck (questo è un esempio) con una Tosca. Quello che io chiamo “alimentare” e che mi dispiace è che una certa programmazione standard non fa alcuno sforzo per diversificare, soprattutto quando le stagioni sono brevi.
Inoltre, nel tuo discorso continui a ritornare all'idea che un regista (moderno) considera sciocchi coloro che non sono d'accordo con lui, e che è seguito da coloro (“intelligenti”) che lo capiscono. Non ho mai detto neanche questo. Odio l'intolleranza e il rifiuto di essere disponibile: quando il
pubblico di Parma fischia la messa in scena del Nabucco di Ricci-Forte appena si alza il sipario, bisogna essere d'accordo che sono di parte per principio. Smettila di farmi dire quello che non sto dicendo.
Si può ovviamente dissentire, e lo si può esprimere, ma non come a Parma trenta secondi dopo l'alzata del sipario, con un insulto al direttore qualche minuto dopo. Odio i fischietti e sono come te, considero il silenzio più potente, e a sipario calato. Infine, per finire di risponderti, non vado a teatro per riposare o per difendermi dal Sublime, vado a teatro o almeno cerco di andarci con i miei sensi svegli e sempre curioso di quello che sto per vedere.
So benissimo che il canto e l’orchestra fanno parte della musica, ma la mia esperienza dell'opera - e suppongo anche la tua - mi ha insegnato che spesso accade che un direttore d'orchestra mediocre diriga una compagnia di canto sublime, o che un grande direttore d'orchestra non abbia otto mano i cantanti che corrispondono al livello espresso dall'orchestra; in entrambi i casi, il risultato è traballante. Quindi trovo che separare l’orchestra dal canto sia piuttosto rilevante, e così ho imparato a guardare il “tripode dell'opera”, scoprendo che se due elementi su tre funzionano, il risultato passa, ma non se funziona uno solo su tre... quando un direttore d'orchestra ha un cast mediocre e una scarsa regia, anche se si chiama Karajan o Solti, o Muti, non funzionerà. È qualcosa che alcuni direttori non ammettono, in quanto sono così convinti di essere l'alfa e l'omega dello spettacolo.
Infine, rispondo ai tuoi attacchi dell'espressione "mettere in discussione", che non era affatto provocatoria, ma era inteso un sinonimo per “interrogare”, o "considerare" il libretto o le relazioni tra i personaggi, non deve essere vista come un richiamo permanente al sacrilegio teatrale. D'altra parte, il tuo ritorno al frequente argomento del "rispetto per l'autore" mi diverte perché implicherebbe che non me ne frega niente. Ma non parlo dell'autore perché per me una buona messa in scena, come una buona direzione musicale, per forza rispetta l'opera, è il minimo che si possa chiedere loro. Quindi non credo sia necessario ricordarlo. È l'implicito di base.
Per quanto riguarda il tuo ritorno all'interpretazione, soprattutto di opere del passato, penso che sia difficile, se non impossibile, giudicare cosa “l’interpretazione” possa rappresentare nell'epoca barocca o romantica. Prima di tutto, il concetto stesso era diverso: giudicava forse le voci, senza avere una concezione sacrale dell'opera ("rispetto" per l'opera) quando ogni spettacolo poteva variare a seconda delle aggiunte, dei cantanti, dei luoghi dello spettacolo, anche secondo le aspettative del pubblico. Il pubblico stesso non andava a teatro come noi, anche ai tempi di Mozart. Dell’interpretazione si può parlare solo quando le condizioni dello spettacolo hanno cominciato ad assomigliare alle nostre, cioè più o meno dalla metà dell’Ottocento. Inoltre, per un pubblico di inizio Ottocento, Rossini era un contemporaneo e Mozart un autore recente. Il pubblico giudicava opere ancora “giovani”, e non come noi che giudichiamo un patrimonio costituito (anche se sta cambiando spesso perché i gusti si evolvono). Il fatto è che il pubblico dell'opera tradizionale non frequenta l'opera contemporanea, mentre quello di ieri lo faceva sistematicamente, e ne ha persino consumata molta, e giudicava le opere alle prime come giudichiamo alle prime la messa in scena oggi. È stato Gérard Mortier a dire, giustamente, che l'opera oggi vive con i fischi (anche se non amo), con le battaglie, solo grazie alla messa in scena. Altrimenti sarebbe un'arte morta.
Ecco perché il giudizio su un'interpretazione si concentra spesso oggi sugli aspetti scenici, più che su quelli musicali (senza dubbio più sul canto ma non troppo sui direttori d'orchestra): se si legge una critica lirica oggi, è per il 75% la messa in scena, per il 20% i cantanti e per il 5% il direttore d'orchestra, semplicemente perché è molto difficile commentare una direzione musicale, si cade molto velocemente o nell'opportuna banalità, o nella tecnica musicale inaccessibile ai profani. Quindi è più facile criticare la messa in scena, almeno, sai cosa dire…
Alla tua domanda, che cos'è l'interpretazione, non potrò mai rispondere "interpretazione, ecco la mia definizione! " Soprattutto musicalmente, semplicemente perché non tutti sentiamo le voci allo stesso modo e non tutti sentiamo la musica allo stesso modo, quindi è un terreno mutevole, dipende anche da dettagli come la sala, il posto occupato ecc... Ricordo Sergio Segalini, che anche tu hai conosciuto, che odiava la Caballé e che la stroncava sempre qualunque fosse il livello della sua performance. La messa in scena almeno (e parlo dal punto di vista della critica così come la leggiamo noi) è più chiara, si può spiegare, raccontare quello che si vede ecc.… quindi, anche per questo motivo anche oggi si parla di più di messa in scena, perché è molto difficile affrontare la questione dell'interpretazione musicale, a meno che non si abbia una formazione tecnica forte o se si vada a teatro da molto tempo. Per la regia, i requisiti sono inferiori, almeno a livello superficiale. E infatti, il giudizio del pubblico si concentra spesso su questo, e un po' sul canto. Quando si tratta di direzione musicale, i criteri diventano elementari (principalmente tempo lungo/tempo veloce) e dipendono anche dalle vostre abitudini di ascolto, soprattutto quando si tratta di registrazioni.
Quindi la mia prima risposta, molto chiara, è metaforica: l'interpretazione è prima di tutto un campo di sabbie mobili...
Elencami per favore i criteri che aiutano a giudicare un'interpretazione.
Non arrabbiarti, non sono in malafede, ma tu sei l’autore di quello che scrivi, e io sono l’interprete; tu sei Verdi, quello che, come da te opportunamente osservato, “non vuol dire, ma dice,” ma sta a me interpretarti.
Tu credi di voler scrivere una cosa, ma il tuo inconscio non si accorge (appunto perché è inconscio, per non parlare del subconscio) dei plurimi significati e dei non detti della tua scrittura, ed ogni interpretazione è legittima; la mia lo è dopo attento studio delle tue conclamate letture di Wagner, famoso per qualcosa di diverso dalla sua tolleranza.
Per cui, quello che hai (contraddittoriamente) voluto esplicitare non ha la minima rilevanza: quello che conta è la mia interpretazione.
Ti prego quindi di non essere intollerante e di non essere indisponibile alla mia interpretazione: finiresti per odiare te stesso appena si alza il sipario sulla mia risposta.
Per equità, ti legittimo ad interpretare la mia asserzione che ogni tanto vado a teatro per cercare un riposo come espressione della necessità di andarci per dormire, dato che la mia casa è troppo rumorosa; tanto presto o tardi ci sarà qualcuno che la interpreterà come aspirazione al sogno di cose sublimi o come desiderio di morte.
Interpretando le tue ultime considerazioni, affermo che vuoi dire che:
- il rispetto per l’Autore è essenziale, e non vale neppure la pena di parlarne;
- quello che il pubblico si aspettava all’epoca della creazione delle opere dipendeva dalla cultura e dai gusti dell’epoca, che erano diversi dai nostri;
- il pubblico di oggi frequenta poco l’opera contemporanea;
- il giudizio sull’interpretazione si concentra oggi più sugli aspetti scenici che su quelli musicali, perché è più facile.
Su tutto questo siamo d’accordo.
Non so se siamo d’accordo su cosa significhi rispetto per l’Autore; quanto al resto, si tratta di dati di fatto che necessitano, ancora una volta, di interpretazione, sempre ché si voglia utilizzarli per qualcosa, e si sappia cosa sia questo qualcosa.
Cerco di chiarirmi. Il concetto di interpretazione, per la ragion che non consente, non può essere estraneo all’oggetto da tradurre e a chi ne è il destinatario. Se un interprete deve tradurre per un ambasciatore un trattato che regola i rapporti tra Stati, o per un commerciante una lettera per una compravendita, è essenziale che la traduzione sia totalmente aderente allo scritto e comprensibile all’interlocutore anche dal punto di vista letterale; se deve tradurre un poema per le anime che sono ancora sensibili a tale tipo di prodotto letterario, la traduzione letterale è irrilevante, dovrà fare delle scelte proprie, se rispettare la metrica, se rispettare la sonorità del verso, se adoperare versi sciolti, se non convenga una riduzione in prosa scegliendo vocaboli affini solo per significato, ecc.
In questo caso, interpretare significa rendere lo spirito profondo dell’opera tradotta allo scopo di comunicarlo ai lettori; in un certo senso anche riscriverla, ma sempre per farne comprendere il valore autoriale originario.
Il fatto che, al contrario di un quadro o di una statua o di una poesia, o anche di un film, che sono cose le quali una volta create nella loro materialità rimangono immutabili, tutto ciò che riguarda il teatro e la musica necessiti di un ulteriore intervento esterno rispetto all’autore per essere realizzato materialmente, lascia evidentemente uno spazio ben diverso agli interpreti, e anche al giudizio dei destinatari, che sono chiamati ad esprimersi non solo sull’opera in sé, ma anche sulla sua interpretazione da parte di altri.
Però anche in questo caso interpretare vuol dire trasmettere lo spirito profondo dell’opera agli spettatori; e - per le opere del passato - ciò che le rende attuali e comprensibili allo spettatore odierno.
L’affermazione di Mortier, se l’ha formulata così, secondo cui l’opera oggi vive “con i fischi, con le battaglie, solo grazie alla messa in scena, altrimenti sarebbe morta”, o è una banalità (se non la metti in scena, l’opera non esiste), o è una boutade per giustificare i fischi, o (e temo sia così) è una profezia di sfiducia totale nei confronti della possibilità dell’opera originaria di essere in sé attuale.
Profezia destinata ad autoavverarsi avendo lo sguardo solo al presente, senza riflettere non solo sul passato, ma neppure sul futuro del teatro: perché la messa in scena richiesta da qualsiasi spettacolo teatrale dal vivo è in gravissimo pericolo, in un mondo che riduce tutto alle dimensioni di un telefonino con le cuffie; e anche i registi, con questa logica, dovranno ragionare su come adattare gli effetti speciali del Ring a queste dimensioni.
Non ci si potrà lamentare poi se il pubblico non frequenta l’opera contemporanea, data per morta prima di nascere; e forse almeno moribonda lo è, dato che le nascite sono poche, e sarebbe bene analizzare se quelle nate non siano nate già vecchie, ciò che spiegherebbe almeno in parte il disinteresse delle nuove generazioni.
Per essere vitale, che tipo di “opera” dovrebbe essere creata ai giorni nostri? A quale pubblico l’Autore contemporaneo la vorrebbe destinare?
Ma parlando dell’opera “tradizionale”, per esempio la suspence se il cantante sarà in grado o no di superare dal vivo senza l’aiuto di microfoni o manopole le difficoltà di un’opera barocca potrebbe a mio avviso tuttora appassionare il pubblico, anche questo se non gioca più a carte nel retropalco; spianare le agilità per ragioni di verità drammatica (è stato fatto fino a poco tempo fa) vuol dire tradire la ragione stessa di questo tipo di opera, che certo può avere qualcosa di più da comunicare rispetto al virtuosismo, alle scene immaginifiche e alle arie “di baule”, ma non troppo di meno; e l’interpretazione non è una cosa che è nata dal momento in cui le condizioni dello spettacolo hanno cominciato ad assomigliare alle nostre; c’è sempre stata, solo condizionata dai tempi.
Far capire al pubblico di oggi quella che poteva essere l’emozione di allora mi pare una missione culturale per far rimanere viva la storia e l’opera, più plausibile della ricerca dei fischi.
Comunque, il fatto che il giudizio su una interpretazione si concentri oggi sugli aspetti scenici molto più che su quelli musicali è per me conseguenza della civiltà dell’immagine e del consumo; difficile che una attualità regga a lungo.
E, bada bene, questo dico senza preconcetta ostilità verso qualsiasi tipo di regia; è lo squilibrio di valutazione dell’apporto tra le componenti che, secondo me, alla fine, anziché valorizzare quanto c’è di nuovo, finisce con lo svalorizzare tutto il resto.
E se si svalorizza il resto, anche il nuovo perde di senso.
Ti ringrazio per questa lezione sull'interpretazione dei miei scritti, che devo dire, mi spaventa un po', visto che ti appoggerai su ciò che scrivo con un ragionamento probabilmente fasullo. Ma devo invece ammettere che hai riassunto con chiarezza i punti sui quali siamo d'accordo.
Ma anche la questione del “rispetto per il compositore” è un campo minato. Tutta la storia del genere lirico, infatti, fino alla metà del XIX secolo, produce opere che vengono viste, recensite, tagliate, modificate a secondo degli umori, dei luoghi, dei cantanti... di tutto questo abbiamo già parlato.
Il “rispetto per il compositore” e dell’opera in generale è una nozione molto recente. E non è raro oggi leggere nella stampa rimproveri aspri sulla pertinenza dei tagli, sulla scelta di una versione e non l’altra, soprattutto per le opere che hanno subito alterazioni e variazioni. Le edizioni critiche sono a loro volta letture e interpretazioni, anche se oggi hanno il valore di statua del commendatore.
Infatti, da un lato, si fa riferimento a un'opera "fissa", cosa difficile per certe opere di Rossini o per esempio del Don Carlos di Verdi, la cui versione originale in francese, che è tornata di moda oggi, viene presentata
- Mai nella sua integralità perché non sappiamo a che cosa riferirci, dallo stato della partitura all'inizio delle prove, con o senza il balletto, alla prova generale, alla prima, dopo la prima ecc.
- Sempre difesa dai teatri nello stesso modo: tutti dicono che la loro è la versione più completa.
Il rispetto filologico dell'opera è una nozione elastica, a seconda delle decisioni tecniche (la lunghezza), o delle decisioni artistiche prese dal direttore d'orchestra e delle discussioni tra il direttore d'orchestra e il regista. E non parliamo del caso dei Racconti di Hoffmann.
Mi risponderai che in questi casi si tratta della lettera dell'opera e non del suo spirito. Riferendosi ai tagli di una recente messa in scena di Les Troyens di Berlioz, approvata dal direttore d'orchestra, in una produzione molto controversa di Dmitry Tcherniakov all'Opéra di Parigi, alcuni hanno detto che questi tagli hanno sfigurato l'opera, altri che erano di scarsa importanza. Dov'è lo spirito dell’opera in questo caso...?
Ho la chiara impressione che lo spirito dell'opera sia una tematica elastica come il resto.
Hai molto giustamente parlato di traduzione, ed è vero che la traduzione è anche interpretazione, a tal punto che diciamo Traduttore/Traditore. Il traduttore è un traditore, e quindi l'opera tradotta non è mai l'opera, è un'opera attraverso il prisma della decisione individuale, che non sarà la stessa a seconda del contesto e della personalità. Ci sono traduzioni dell'Ottocento che oggi non vengono più utilizzate, ad esempio.
Lo "spirito dell’opera" varia a seconda dei venti. Niente nell'arte è immutabile, e abbiamo già parlato di variazioni nella lettura di Così fan tutte, si potrebbe dire lo stesso e forse anche di più di Don Giovanni. E in un certo senso è il carattere delle grandi opere a dare origine a infiniti esegeti. La messa in scena, con la sua diversità e le sue possibili contraddizioni, è il più grande omaggio che si possa rendere alla ricchezza delle grandi opere teatrali.
Alla faccia della diversità delle letture musicali: cosa hanno in comune il Don Giovanni di Furtwängler con quello del barocchista di oggi? Eppure, dietro c'è un'opera inesauribile, così come ci sono letture di Don Giovanni da un Zeffirelli (a Vienna) o da un Tcherniakov (ad Aix-en-Provence). Questa molteplicità è giustificata dalla grandezza dell'opera. Ecco la sua singolarità.
Questo è chiaro per la letteratura (un titolo e tante letture quanti sono i lettori) e per tutte le arti. E certamente, le arti dello spettacolo, come lo hai detto, hanno bisogno di un interprete per raggiungere il pubblico. L’interprete che sarà, a seconda dei casi, un traditore o un genio, o semplicemente un decifratore... è quindi una questione di interpretazione a più livelli, che moltiplica le insidie, perché
- Il compositore ha un'idea dell'opera ("gli intenti dell'autore") che possiamo conoscere solo indovinandoli o supponendoli.
- L'interprete (musicista e regista) ha un'idea dell’opera che ci sta esprimendo.
- L'ascoltatore o spettatore (il pubblico) ha anche una sua idea dell'opera che si confronta con ciò che sente e vede.
In questo gioco di biliardo a tre, è difficile districare le cose. E quando si dice "lo spirito profondo dell'opera", si esprime un concetto che non esiste nemmeno. Lo spirito dell'opera è quello che io (musicista, artista, pubblico) le attribuisco... Non appena un'opera lascia la stanza privata del compositore attraverso una presentazione teatrale, una pubblicazione, una mostra, appartiene al pubblico che la incontra. Non appartiene più al suo autore (a maggiore ragione non appartiene alla famiglia o agli eredi se il compositore è morto).
Per tutta la sua vita, Gérard Mortier ha cercato di dimostrare che le opere sono costruzioni geniali e inesauribili, da leggere alla luce dei nostri tempi e dei nostri problemi. La sua affermazione sostiene che l'opera lirica oggi è veramente creativa solo attraverso la messa in scena, perché di tutte le opere create negli ultimi 50 anni, pochi vivono e fanno carriera: Die Soldaten di Zimmermann, Al gran sole carico d'amore di Nono, Saint François d’Assise di Messiaen, forse recentemente Written on Skin di Benjamin. Chi ancora ricorda Blimunda di Corghi (prima alla Scala)?... La creazione di Kurtág Fin de partie (prima alla Scala nel 2018) è stata premiata con un premio europeo. Al momento, le opere di Luca Francesconi sembrano essere seducenti, con prime a Parigi o a Monaco di Baviera. Tra dieci anni, cosa ne rimarrà?
Il genere non vive più di nuove opere. Così Mortier allarga il concetto di creazione alla regia, e lì le cose si muovono e vivono. L'opera è un'arte morta se si ripetono trenta standard che vediamo ovunque.
C'è una cosa che storicamente ha sempre funzionato con il pubblico di tutte le epoche: è la sete di novità (contrariamente a quanto tu dici alla fine della tua risposta: "è lo squilibrio nella valutazione del contributo tra le componenti che, a mio parere, invece di valorizzare il nuovo, finisce per svalutare tutto il resto". Il nuovo è sempre piaciuto, non importa com'è stato espresso. È ciò che ha fatto correre il pubblico a Parigi nel Settecento, soprattutto quando la stagione riprendeva a Pasqua, ed è ciò che fa correre il pubblico più spesso ai nostri giorni. Certo, a prescindere dai titoli "alimentari" che attirano un pubblico stabile, una nuova produzione con una nuova messa in scena interessa sempre il pubblico, la stampa, i media. Nel Settecento erano opere nuove, nel Duemila sono nuove produzioni di opere vecchie, e se questo è uno scandalo, tanto meglio perché fa parlare.
Infine, il pubblico dell'opera lirica, come nel Settecento, è ancora sensibile al canto, ai cantanti, alle dive, e le voci affascinano ancora, perché ancora il pubblico si divide. Quindi ci sono cose stabili.
Ma la nozione di interpretazione è anche cambiata a seconda dei tempi, a seconda degli interessi del pubblico . Alcuni registi hanno cercato di far capire cosa poteva essere l'opera nel Settecento, per esempio, ma allora non si andava necessariamente a teatro per vedere un'opera nella sua totalità, si giocava, si mangiava e si facevano anche altre cose nei palchi chiusi. Oggi è difficile ricreare condizioni che sono lontane anni luce dalle nostre preoccupazioni e abitudini, per di più, non ci sono più castrati che facevano girare la testa agli spettatori... È quindi costantemente necessario reinventare per rimanere fedeli sia all'opera che al suo attuale contesto di rappresentazione.
Sono in totale disaccordo con la tua affermazione che gli aspetti scenici prevarrebbero oggi a causa della civiltà dell'immagine. Avevano già prevalso nel Settecento, quando furono create opere straordinarie per fantasmagoria, macchine, illusioni visive, centinaia e centinaia di titoli oggi scomparsi, creati solo per spettacolo visivo, per gli effetti, per piume e paillette e che facevano correre le folle (folle che non conoscevano allora gli schermi...).
E dietro la tua affermazione che il gusto per il nuovo svaluta il resto, niente potrebbe essere più lontano dalla realtà, secondo me. Per i motivi sopra esposti, poiché "il nuovo" si applica alle opere del passato, il più delle volte le valorizza, nel bene e nel male. Di fronte a una messa in scena che odierai, griderai al tradimento dell'opera o dello “spirito dell’opera”, e di fronte a una messa in scena che amerò, dirò che essa esalta l'opera come mai prima d'ora. In entrambi i casi, l’opera è al centro, e non lo svalutiamo affatto, rimane l’opera il riferimento assoluto, mai dimenticato.
Le competizioni dialettiche amichevoli permettono di consentire di arrivare per gradi al nocciolo dei problemi più efficacemente delle contrapposizioni teoriche; se infatti ci fossimo fermati al tuo assoluto relativismo e alla mia necessità razionale di trovare dei punti fermi, non avremmo mai potuto avere un metro comune sul quale confrontare i nostri giudizi, che spesso coincidono in concreto per quanto riguarda i risultati delle regie; alla fine, per semplificare grossolanamente, tu non rigetti necessariamente le regie tradizionali, e io non rigetto a priori quelle innovative; tu ritieni rispettose dello spirito degli autori anche quelle che prospettano interpretazioni normalmente impensabili se si ha riguardo alla tradizione, io non escludo che queste interpretazioni possano essere più vicine allo spirito degli autori di quelle tradizionali.
Il metro comune è quello della qualità artistica complessiva della rappresentazione, che in un certo senso prescinde dalla correttezza dell’interpretazione; non escludo neppure che uno spettacolo basato sulla critica del contenuto e della drammaturgia degli autori possa essere addirittura migliore dell’opera rappresentata; ma contesto che si tratti di rispetto della creazione di costoro.
Alla fine credo però di essere più disponibile io, perché non ho pregiudizi ideologici riguardanti la funzione didattica del Teatro (un conto è il messaggio politico che il metodo didattico vuole fare passare, altro è concepire un metodo registico che punta allo straniamento, metodo che raggiunge risultato artistico a seconda della sua adattabilità all’oggetto rappresentato e della qualità tecnica con cui è proposto; se Brecht è facilitato dal fatto che questo metodo riguarda i suoi stessi drammi - oltre che dalla musica di Weill! -, non per questo lo straniamento può avere necessariamente risultati utili dappertutto), né la bontà delle tesi di Wagner sul Teatro (formulate pro domo sua in relazione ai suoi verbosi Poemi).
Sarà anche recente il concetto del rispetto del compositore, ma vallo a dire a quei compositori (compresi Mozart e Rossini, con tutti i necessari compromessi dell’epoca) che da almeno due secoli e mezzo hanno lottato faticosamente per far emergere la figura dell’Artista creatore e Autore indipendente.
Poi, proprio per la necessaria mediazione degli esecutori dell’Opera, che senza di essa non può essere ascoltata e vista, è chiaro che l’interpretazione non può che essere infinitamente variabile; e, per quanto si possa sforzare la filologia, non sapremo mai quale tipo di interpretazione intendesse l’Autore essere la più fedele, perché sicuramente non lo poteva sapere neppure lui prima di vedere il risultato, e probabilmente neanche dopo, essendo questo condizionato da plurimi fattori.
Certo il concetto di opera “fissa” è sempre labile; sul piano pratico può semplicemente dipendere dagli elementi a disposizione, dall’acustica, dal budget, dalla grandezza del palcoscenico, ecc. ecc.; e la filologia può aiutare, o per converso addirittura contrastare la soluzione dei problemi interpretativi.
Ma questo non vuol dire che qualsiasi interpretazione vada bene; sgombriamo il campo da un equivoco, il concetto di interpretazione può essere a sua volta interpretato; ad esempio, molti cantanti, interpretando “O sole mio”, interpretano se stessi che cantano, non la canzone.
Nel caso della messa in scena di un’opera, l’interpretazione presuppone la disponibilità a mettersi in sintonia con la sensibilità dell’Autore anzitutto sulla base del materiale da lui elaborato e degli strumenti tecnici e artistici a sua disposizione.
Per esempio, pare improbabile che Autori che si preoccupavano di fare ingaggiare cantanti adeguati alle loro opere, o addirittura scrivevano parti per loro, amerebbero versioni con cantanti dalle caratteristiche completamente diverse; e a parte anche le indicazioni interpretative pressanti di molti compositori (ti dice niente, per esempio, quale tipo di interprete volesse Verdi per Lady Macbeth?), non è nel complesso l’espressività della musica come intravista dallo scritto e connessa al procedere del dramma a rivelare quanto l’autore vuole trasmettere?
Esistono versioni diverse della stessa opera da parte di autori, certo. Un Teatro potrà mettere in scena questa o quella, ma il metodo di ricerca interpretativa rimane lo stesso: cosa ci voleva dire l’Autore nella versione che il Teatro ha scelta?
I racconti di Hoffmann sono un caso particolare, causa la morte dell’autore prima del completamento; del Don Carlos si conoscono le ragioni storiche delle diverse versioni.
Ma, sia pure con sfumature anche importanti, la struttura dei personaggi rimane nelle diverse versioni di queste opere sostanzialmente unica nella sua complessità artistica e psicologica.
Altra questione è quella dei tagli praticati da altri che non gli autori; qui la legittimità dipende da cosa viene tagliato.
Altra questione ancora è la diversità delle letture musicali; ma non è che il Don Giovanni di Furtwängler non abbia alcunché in comune con quelli barocchiste odierne; è che l’opera è ambigua, e consente plurime letture.
Plurime non vuol dire tutte.
E continuo a ritenere quanto mai discutibile la concezione dell’opera attribuita a Mortier come quella di un cadavere da far resuscitare provvisoriamente con i fischi.
Poi, posso dirti che la tua affermazione secondo cui “il nuovo è sempre piaciuto” non mi pare troppo coerente con quanto dici a proposito delle opere nuove e piuttosto discutibile in fatto anche per il passato?
Pensando per esempio a Bizet, sarei un poco più prudente.
Occorre riprendere il confronto sugli spettatori, e sul perché delle loro reazioni.
E, sulle opere nuove, vorrei aprire un capitolo a parte; non sono convinto che l’opera sia una lingua morta; purtroppo ci sono autori di oggi che parlano una loro lingua morta.
Anche se sono lieto di vedere che stai dicendo cose ragionevoli e quasi sensate quanto me, non mi addentrerò nell'estenuante dibattito su chi è più disponibile tra te e me. Lascio al lettore la scelta tra la mia apertura e la tua chiusura. Tra i miei solidi argomenti e i tuoi cavilli, c’è qualche differenza…
Per tornare a cose serie, ho scoperto quale fosse il potere della regia quando ho visto le regie successive di Patrice Chéreau agli inizi degli anni 1970, e ovviamente questo mi ha indotto a leggere Brecht. Quindi sono un brechtiano deciso e credo nella funzione sociale e politica del teatro (proprio come Wagner, che però non piaceva molto a Brecht – forse tra l’altro più i wagneriani che Wagner stesso...). Ma posso essere d'accordo con te quando dici che alcune interpretazioni possono essere aperte alla discussione o anche al rifiuto. Condivido anche la sua opinione su la voce che Verdi voleva per Lady Macbeth, un ruolo che non può essere offerto a una magnifica voce belcantistica senza asprezze.
E sono anche d'accordo che la scelta dei cantanti per un ruolo può anche farci capire la sensibilità del compositore, tenendo però presente che le voci si sono evolute, il diapason è cambiato, e orchestre e strumenti si sono evoluti. Infine, se l'artista ha cercato di conquistare il suo posto nella società, lo deve essenzialmente all’Ottocento, e all'ascesa della borghesia in tutta Europa, che lo ha reso indipendente da Corti e Principi. Allo stesso tempo, però, lo ha anche portato a vivere grandi difficoltà economiche. L'indipendenza ha un prezzo...
Infine, ammetto che sia Les Contes d'Hoffmann che Don Carlos pongono problemi particolari, ma comunque, le diverse scelte dei direttori d'orchestra o dei registi, gli sviluppi dovuti alle recenti edizioni critiche, soprattutto su Offenbach, danno una scelta molto ampia di versioni possibili, con colori molto diversi, anche contrapposti.
Tutte le grandi opere, e non solo Don Giovanni, offrono letture plurime, proprio perché sono grandi opere, ma condividi l’idea che Furtwängler offre un'interpretazione molto lontana di quelle di un Abbado o di un Harnoncourt, a fortiori dai barocchisti odierni? Ma questa è la regola del gioco ed è una fortuna per l’arte.
Per tornare a Mortier, vorrei tornare ai fischi che sembrano bloccarti. Mortier amava le battaglie, in quanto era d'accordo con il mio caro Frank Castorf che non amava il pubblico troppo saggio, perché la battaglia era per loro la prova che il loro lavoro o la loro scelta toccava qualcosa di profondo o di fondamentale rifiuto. Ma Gérard Mortier, al di là delle battaglie, pensava che la "popolarità" dell'opera sarebbe stata mantenuta solo dalla messa in scena, che avrebbe dato al genere un'attualità, una vita che la routine non poteva offrire, considerata l’inizio della fine.
Non dimentichiamo che a Salisburgo Mortier è succeduto a Karajan: si andava a Salisburgo per lui e non per il resto, regie o cantanti che siano. Morto Karajan, il vuoto non poteva essere riempito da un altro direttore con la stessa aura. Così Mortier ha dovuto cercare di portare a Salisburgo un pubblico con altri criteri o un altro pubblico.
Continuo anche a contestare quello che dici su "il nuovo". Perché la questione del nuovo che attira non significa il nuovo che soddisfa. Aspettiamo il nuovo, ma possiamo fischiarlo, possiamo rifiutarlo. È il caso della Carmen di Bizet. La novità attira le folle, ma poi il destino della nuova opera è altra cosa. Quindi la curiosità per il nuovo esiste sempre, a prescindere del giudizio sulla novità in questione.
Per molti secoli questa curiosità ha riguardato nuove opere, oggi si tratta piuttosto di nuove regie (secondo il metodo Mortier): la curiosità ha semplicemente cambiato oggetto.
Infine, si conclude con la questione delle nuove opere... ampio problema che, tra l'altro, non deve fermarsi al contemporaneo. In effetti, il Novecento ha creato meno opere nuove rispetto all’Ottocento: cosa creare dopo Wozzeck? Forse il genere non è adatto all'evoluzione della musica del Novecento. Ma sono stati creati musical, operette, altre forme sceniche. Dobbiamo lavorare questo terreno.
Mi spiace (ma non troppo: te lo meriti) vederti in confusione.
Non ti avvedi che da una parte confermi la rigidità del tuo criterio di giudizio, e dall’altra non rispondi alla (non) banale domanda su cosa si fondi, nonostante il passare del tempo, il mutamento delle condizioni sociali e culturali, il progredire della tecnica, le differenti scelte interpretative, la diversità del diapason, ecc. ecc., la permanente validità di un’opera?
Non è che questa dipenda da fattori contingenti, perché anche la più splendida interpretazione musicale o registica non può (di solito) fare diventare un capolavoro quello che è nato mediocre; e, per converso, una pessima interpretazione rischia certamente di allontanare la comprensione del capolavoro, ma non cancella la sua originaria esistenza.
Il tuo criterio di valutazione è rigido, perché basato sul pregiudizio che solo la regia possa oggi tenere in vita l’opera, della quale quindi finisci per negare un autonomo permanente valore; ed è ancora più rigido perché basato su un concetto di regia legato alla ipotesi della funzione didattica e politica del Teatro.
Inoltre, sottovaluti la dimensione musicale; è certo molto più difficile fare emergere il nuovo, che pure c’è sempre in un capolavoro, da qualcosa di misterioso, ma scritto, come una partitura, rispetto a quello che può fare uno strumento, come la regia, libero di aggiungere qualcosa che prima non c’era; però contesto che sia la regia il principale o addirittura l’unico fattore determinante per la attualità o per permanenza in vita di un capolavoro; e contesto ancor di più che l’invenzione registica possa o addirittura debba sovrapporsi a quello che ha consentito all’opera di permanere percepita come capolavoro.
Altrimenti non staremmo a parlare della differenza tra le interpretazioni musicali di Furtwängler, di Toscanini, di Abbado, ecc.
Tra parentesi, lo so che tutte le grandi (e non solo queste) opere offrono letture plurime, poiché gli uomini sono prima di tutto essi stessi complessi per natura, compresi i compositori; ma ce ne sono alcune che nascono più ambigue di altre; e comunque tutte hanno qualcosa in sé che le rende coerenti a se stesse nonostante le diverse interpretazioni.
E’ poi ovvio che la routine è l’inizio della fine; non discuto che per evitarla occorra dare battaglia talora anche contro il pubblico; capisco e anzi sono convinto della necessità del ricambio nel tempo di prospettive artistiche e produttive da parte dei responsabili dei Teatri. Infine, non mi permetto di dire che l’impostazione di Mortier non abbia prodotto risultati in concreto positivi.
Ma anche questa impostazione, legata all’attualità, era soggetta, oltreché ai risultati, al tempo, molto di più dell’opera cui veniva applicata; e anch’essa, con il tempo, ha prodotto routine al di là di tutte le buone intenzioni.
Non ho teorie su se e su come evolverà lo spettacolo teatrale dal vivo, né su quali novità porterà; al presente, a parte i gusti personali, sembra a me che le regie, salvo ancora notevoli eccezioni, vivano una fase di stallo assai pericolosa; non si può vivere solo di tradizioni, ma neanche di provocazioni, soprattutto se queste non sono neppure più vissute come tali dalla maggioranza del pubblico, che più o meno si è adattata a tutto.
Infatti, il pubblico non è una cosa unica: c’è chi va all’opera solo per sfoggiare l’abito da sera, c’è chi ci va portato di peso da qualcun altro pur odiando il genere, c’è chi ci va per sentire i cantanti o il direttore d’orchestra o per vedere la regia o per il complesso di questi elementi, c’è chi ci va per piangere o per divertirsi, c’è chi ci va per curiosità e chi, come te, per imparare (come vedi, ho evitato ogni riferimento all’“indottrinamento”).
A parte le prime due categorie, penso che gli altri vadano allo spettacolo per avere un’esperienza diversa dalle precedenti, anche se si tratta per l’ennesima volta di vedere la stessa opera; e quindi per qualcosa per loro di stimolante e di nuovo; non penso siano pregiudizialmente contrari ad esso.
Possono non capire quello che è loro offerto, e qui si tratta di capire a nostra volta perché: può essere che non si sforzino troppo, o che l’offerta sia incomprensibile con tutti gli sforzi possibili dai fruitori; o metà e metà. Ma possono anche capire fin troppo, e rifiutarsi di accettare routine spacciata presuntuosamente per nuovo.
Personalmente, credo di sforzarmi di capire e anche di essere tollerante, perché conosco le difficoltà di mettere in scena un’opera, soprattutto se di consolidate tradizioni; ma, pur non ritenendomi del tutto sprovvisto di senso dell’umorismo, fatico a confonderlo con la presa in giro.
Vedo che sotto il nostro dialogo è posta come riferimento la recensione del Don Carlo alla Fenice di Masiero. Mi domando se non possa essere utile – per par condicio, ma soprattutto per un esempio concreto di quello che sto dicendo – consentirmi una mia recensione a memoria, da affiancare a quella.
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Nota dell'editore: Maurizio Jacobi ha aggiunto un commento alla recensione di Mauro Masiero, leggerlo sulla pagina della recensione (vedere il link sotto: austero, sontuoso, profondo)
Come abbiamo già detto (attenzione a non ripeterci) l'opera d'arte interroga costantemente il mondo, qualunque essa sia, e come tale va oltre il tempo della sua creazione: questo è uno dei motivi per cui l’opera d’arte resiste a tutte le interpretazioni. Nel campo musicale possono esistere alcune differenze a seconda della musica; il repertorio italiano richiede di essere ben cantato e ben diretto perché resiste meno alla mediocrità. Wagner resiste al contrario perché può ammettere voci meno eccezionali, anche direttori mediocri. Ma questi sono dettagli. D'altra parte, una grande direzione musicale può portare al trionfo opere non immortali (penso a Gavazzeni quando ha diretto alla Scala Freni e Domingo nella Fedora di Giordano).
Come sempre, stai estrapolando e distorci il mio pensiero. Ma ora ci sono abituato.
La messa in scena rinnova l'interesse scenico dell'opera, che però può vivere perfettamente senza (per esempio, nel disco e anche nelle versioni concertanti) ma non sarà completo il piacere. In questi tempi, in cui si può realizzare molto bene un Don Carlo, difficilmente si può realizzare un Trovatore, tanto che sono pronto a vedere un Trovatore registicamente mediocre se il cast e il direttore d'orchestra sono grandi, sarà una grande serata di piacere, segno che non sto trascurando la musica; inoltre, non sono sicuro che una regia “moderna” o "provocatoria" del Trovatore sia così necessaria... quindi non ho alcuna rigidità.
Dipende dall’opera. È chiaro che la posta in gioco scenica di Wozzeck o Lulu è più importante. Ha a che fare con il libretto e la drammaturgia, non l’epoca, perché Don Giovanni, come Wozzeck, esige una forte drammaturgia. Tutto questo per dire anche quanto siano complessi i problemi posti da ciascuna singolare opera.
D'altra parte, mi piace andare a teatro e uscirne in modo diverso da quando sono entrato: sì! credo nel valore didattico del teatro (ma musica E regia…), senza mai sottovalutare la dimensione musicale (da dove l'hai dedotto?) Imparo anche da una grande direzione musicale, oltre che dalla regia. Una grande regia scenica e una direzione musicale si alimentano a vicenda, e non si soffocano a vicenda. Come continuo a dirti, la mia teoria del tripode funziona perfettamente. Lo spettacolo “passa” se due dei tre elementi (il canto, la regia e la messa in scena) funzionano. "Passa" significa che la rappresentazione avrà un successo discreto, anche se non è perfetta.
Perché pensi che sottovaluti la dimensione musicale? Assolutamente no. È certamente molto più difficile far emergere la novità di una direzione musicale, che richiede abitudini di ascolto. Ammetto che la "novità" di una direzione è più difficile da far sentire che la novità di una regia.
Ma affermo con forza che l’arrivo della regia ha contribuito ad esaltare grandi capolavori musicali, a far scoprire ancora di più la loro profondità, come per le opere di Janáček, ad esempio, che sono spesso oggetto di superbi lavori scenici, ma anche di tanti altri compositori. Oggi la messa in scena è essenziale anzi è un’esigenza per la completezza dello spettacolo: un secolo fa e prima non era così. Wagner (ancora lui) diceva: " ho inventato l'orchestra invisibile, magari avessi inventato il teatro invisibile!", sottolineando così la mediocrità di ciò che vedeva.
Per quanto riguarda quello che dici sulla routine... ogni spettacolo si confronta con la routine, ci sono spesso direttori di routine, e ci sono allestimenti che sono ripetitivi e di routine, sia nel tradizionale che nel moderno: Robert Wilson fa lo stesso spettacolo da anni, era nuovo nel 1978, è ripetitivo oggi, anche se elegante. E non è l'unico. Come posso non essere d'accordo con te?
Eppure la messa in scena non è per niente in un vicolo cieco. Ogni stagione porta nuovi registi, che rinnovano le visioni, anche allontanandosi dal Regietheater brechtiano a cui tu sembri ridurre la regia moderna; alcuni tipi di messa in scena hanno certo esaurito il soggetto, altri no: tu hai una visione molto riduttiva e caricaturale di ciò che sta accadendo oggi, che è, al contrario, molto variegato. Solo in Italia considera le differenze emerse tra Castellucci, Michieletto e Ricci-Forte.
L'accoglienza del pubblico dipende dalle sue aspettative, c'è un pubblico che va all'opera ogni settimana se possibile, un altro che va una volta al mese, una volta all'anno, o anche meno, l'offerta è molto diversa a seconda del paese, è forte in Germania e in Russia, meno forte in Francia, Italia e Spagna. Non si ha la stessa esperienza se puoi vedere 50 opere all'anno e se ne vedi quattro...
Quindi la questione del pubblico è da un lato
- ciò che viene offerto in termini di quantità e qualità
e dall'altro
- ciò che si aspetta; e gestire un teatro vuol dire soddisfare tutti i gusti: è facile se si offrono una quindicina di titoli, meno facile se se ne offrono tre o quattro. È una questione di soldi e di politica culturale. Indipendentemente da tutto il resto.
Ecco perché ancora non capisco perché pretendi che ci siano regie in cui credi di essere preso in giro. Una cattiva messa in scena non è una messa in scena in cui si viene presi in giro, è solo un pessimo lavoro. Un cattivo avvocato si prende gioco del suo cliente? No, è solo un cattivo avvocato.
È una questione di qualità, gli artisti siano famosi o meno. La qualità di un management è la qualità dell'offerta, non importa quali siano le scelte. Nell'Ottocento, a Parigi, si combatteva nei teatri con le sedie degli orchestrali perché la posta in gioco estetica era più importante di oggi - e che nascondeva più fortemente di oggi la posta in gioco politica. Vediamo ancora gente che litiga, ma è più raro. ll teatro, però, è un microcosmo del corpo sociale, con le sue tensioni e i suoi problemi. Per questo deve offrire una diversità di opere e di estetiche, senza necessariamente cercare l'unanimità o il consenso televisivo tutto sorrisi e canzoni, ma cercando sempre di difendere una qualità che possa far progredire il suo pubblico facendogli vedere tutto quello che si fa.
Brevemente – per non ripeterci – sulla distorsione da parte mia del tuo pensiero: rileggi quello che hai scritto fin dall’inizio.
Con quello che scrivi ora, sono d’accordo quasi su tutto, con un paio di precisazioni marginali: io credo che il Trovatore sia una di quelle opere in cui la regia può trovare novità e infiniti spunti (non quelli narrati da Bufalino Tracotanti); nulla da dire sul fatto che se la regia si fonde con la direzione musicale e non la soffoca, contribuisce a creare qualcosa di artistico che in passato non c’era e completa lo spettacolo, ma ciò riguarda tutti i tipi di regia, dalle più tradizionali alla più avveniristiche, mentre il problema che mi sembrava tu volessi porre era quello del perché parte del pubblico accetti meno queste ultime rispetto alla prime; non sono certo io a ridurre (ridurre?) la regia moderna a Regietheater brechtiano, c’è qualcun altro che lo fa, e non ho una visione caricaturale di quanto accade oggi, che ovviamente è molto variegato, ma solo di quelle regie che sono a mio avviso caricaturali per conto loro; e non è un dettaglio, come tu affermi, l’approccio registico a questo o a quel repertorio.
Vorrei poi sgombrare definitivamente il campo da cose che mi sembrano ovvie: non si ha la stessa esperienza se si vedono 50 opere anziché 4; è più difficile soddisfare tutti i gusti offrendo 4 opere anziché 50 (solo osservo che un Teatro può avere una grande funzione culturale anche con 4 opere che non soddisfino tutti i gusti, ma rispondano ad un preciso criterio di produzione, specializzandosi); certo occorrerebbe che le Istituzioni intervenissero in modo adeguato; una cattiva messa in scena è solo un pessimo lavoro; e qui è opportuno che io precisi che, quando parlo di presa in giro da parte di alcune regie, non mi riferisco necessariamente a precisa volontà di farlo, ma alla presunzione che una qualche trovata sostituisca la mancanza di idee e di reale approfondimento.
Ma veniamo alla questione delle reazioni del pubblico, che, come dici, è molto variegato.
Ci sono pochissimi, credo, che come te hanno la passione e la possibilità di girare tutti i teatri del mondo per fare esperienza; e per questo hai acquisito una eccezionale competenza.
Ma credo sia anche per questo che tu, se è vera la mia interpretazione, aneli di scoprire sempre qualcosa che va al di là della fruizione dello spettacolo; uscire da Teatro diverso da come sei entrato non solo per avere vissuto le emozioni sentimentali o intellettuali che ti ha dato, ma per avere vissuto e imparato qualcosa ad esse filosoficamente superiori; cosa questa sempre più difficile per chi ha visto quasi tutto, ma che può più facilmente sopportare l’intento antiborghese presente in tutte le avanguardie di destra e di sinistra.
Non si può pretendere la stessa cosa dal pubblico normale, pur variegato.
Certo che il pubblico deve fare la sua parte, attrezzarsi di suo, per potere effettivamente godere lo spettacolo con consapevolezza; vale per tutti i tipi di spettacolo: per esempio, mi sono recato una volta a vedere una partita di base ball senza conoscerne le regole, presuntuosamente credendo che le avrei capite vedendo il gioco, e invece non ho capito niente; e ho applaudito e fischiato a seconda di quello che facevano i miei vicini per puro spirito di gregge, ed evitato poi di tornare a vedere un’altra partita di uno sport che mi è parso noiosissimo. Magari lo è sul serio, ma il mio giudizio in proposito è assolutamente inconsistente.
Una volta fatta la sua parte di necessaria conoscenza, e di conseguenza avere assunto il sufficiente grado di disponibilità, conseguente al fatto che la partecipazione ad uno spettacolo dal vivo è cosa attiva e non passivo sdraiarsi con il pop corn a seguire un festival canoro televisivo, il pubblico è generalmente abbastanza in grado di valutare la qualità dell’offerta.
Certo ha delle aspettative: la prima è di andare a vedere un’opera, sperando che la realizzazione sia di qualità; la quale qualità è data anche dalla comprensibilità, che, scontata la preparazione di base, non può essere affidata se non marginalmente a qualcosa che vada dedotta al di fuori della rappresentazione.
Si leggono note di regia, anche dottissime, anche esaurienti per la comprensione (non necessariamente per l’approvazione) a posteriori, ma per me e credo per la maggior parte del pubblico l’importante, per uno spettacolo, è essere capito per come si svolge sul palcoscenico.
Capito e apprezzato, o non apprezzato; ma prima di tutto, capito. E se spesso si è verificato che il pubblico (ma ancor più spesso la critica) abbia preso cantonate, si può ovviamente verificare anche che l’artista non sia in grado di comunicare, o che quello che ha comunicato abbia scarso valore.
Questo non c’entra con la ricerca dell’unanimità o del consenso tutto sorrisi e canzoni.
Però penso abbia in parte anche a che fare con il problema delle opere nuove.
Non credo che sia responsabilità del pubblico se certe novità (certo non tutte) non resistono neanche il breve periodo delle sporadiche prime comparizioni; non sempre, però di solito, le cose di valore, anche se in un primo momento possono non essere state comprese, poi nel tempo riemergono perché hanno molto da dire.
Non escludo, e la questione va approfondita, che sia il genere opera in sé a non potere avere per molti motivi possibilità di ulteriore sviluppo; ma certo se inattuali sono le pretese artistiche dei compositori, il fatto non aiuta la sopravvivenza.
Quanto a Wagner, non so se sarebbe mai stato d’accordo con qualsiasi regia di sue opere, perché altrui; mi stupisco solo che, per un fautore della grecità, non abbia fatto sua anche la tesi secondo cui la musica non udita è migliore di quella udita, non limitandosi a fare sparire l’orchestra, ma facendo sparire anche la musica.
Sarebbe stata una grande perdita, ma cosa non si fa per fare aderire la realtà ad una ideologia!
Credo che parli molto troppo di ideologia, hai parlato di me, e tra l’altro anche di Wagner (non merito di stare al suo fianco). Non c'è ideologia, c'è solo la storia di un'arte giovane chiamata regia, appena di un secolo (quasi quanto il cinema). E nell'opera lirica l'arte della regia ha circa 70 anni, cioè niente. E così quest'arte continua a progredire sperimentando letture di opere che possono sorprendere, che possono andare nella direzione sbagliata, che possono essere cattive, ma che dipendono anche dall'evoluzione sociale, dalla morale, dalle evoluzioni tecniche del palcoscenico, tanti cambiamenti che sono diventati sempre più rapidi negli ultimi anni.
Ricordiamo di recente il finale di Carmen trasformato da Leo Muscato, dove è stata Carmen a uccidere Don José. Mi dirai che da Bizet Carmen aveva ucciso già da tempo l'anima di Don José, ma alla fine Muscato ha fatto doppio colpo, ha fatto un finale à la #Metoo, sensibile al vento dell'epoca, e soprattutto si è fatto pubblicità, perché tutti i giornali europei hanno ripreso la notizia, per una regia risultata tra l’altro mediocre assai…
Io la chiamo sciocchezza. La messa in scena, o almeno una certa messa in scena, adattata al periodo e servita come la zuppa di moda.
E, cosa ancora più importante, non riesco ad andare d'accordo con la tua richiesta di comprensione diretta e immediata di una regia. Certo, fai bene a sottolineare che la mia regolare (eccessiva?) frequentazione dei teatri mi dà necessariamente aspettative e esigenze particolari che ogni spettatore non può avere, ma vedo il mio lavoro critico proprio come offrire al pubblico elementi di confronto o di storia delle produzioni che contestualizzano lo spettacolo ed eventualmente ne relativizzano le invenzioni, le intenzioni e il valore. Tornando al famoso Don Carlo di Carsen, del quale non posso dire nulla dato che non ho visto lo spettacolo; il suo merito è forse quello di fare di Posa il perno dell'opera, e per me lo è - indipendentemente dal fatto che sia un bravo ragazzo o uno cattivo.
Nel tuo commento inoltre dici anche che questo Don Carlo manca di colore: se visiti El Escorial, sarai d'accordo che non è un fuoco d'artificio di colori barocchi... pareti grigie, ceramica azzura, è freddissimo. In questo, un colorato Don Carlo alla Zeffirelli mi disturba.
D'altra parte, per quanto riguarda La Traviata di Tcherniakov, ritengo che la messa in scena contribuisca a dare al personaggio di Violetta una profondità diversa rispetto alle consuete produzioni che ci vengono presentate, una profondità che mostra chiaramente del personaggio il suo passato, la sua nostalgia, i suoi sogni.
Ecco quello che cerco nella regia: mostrare che i personaggi non sono hic et nunc sul palco, ma che hanno un destino, un passato, e che sono determinati ecc...
La messa in scena si basa quindi sul progresso della ricerca filosofica e storica, sulle mode sociologiche del momento, e soprattutto dimostra che l'opera parla, che continua a parlare e che addirittura pone domande che forse non sono state poste cinquanta o cento anni fa.
La regia wagneriana rimane la punta di diamante del movimento sulla messa in scena dell'opera lirica nato dopo la seconda guerra mondiale: è a Bayreuth che la regia è nata per gli scritti teorici di Wagner e perché Wagner attraversa la storia, in particolare il nazismo, che ha fatto (con l'aiuto della famiglia e in particolare della nuora Winifred Wagner) di Wagner (per forza alla sua insaputa ) una sorta di pre-nazista. Così Wagner è usato, attraverso i suoi scritti e le sue opere, come emblema ideologico aldilà di quello che ha scritto e detto. Ma non ci si pone mai la domanda che per me è essenziale: cosa hanno fatto i successori-seguaci di Wagner? La religione di Bayreuth-peregrinaggio, la sacralizzazione delle opere e le produzioni installate in una sorta di immutabile fissità. La produzione originale del Parsifal rimasta tale quale fino agli anni Trenta e non se ne poteva più, e fu Hitler (sì...Hitler) a spingere per il cambio di produzione. È inoltre Brecht diffidava più da questo conservatismo di questo conservatorismo religioso dei wagneriani che da Wagner stesso.
Tutti questi richiami dimostrano sia la complessità di queste domande sia il terreno da cui muovono le delle problematiche: e "il caso Wagner" è emblematico. Ideologia, testi teorici che creano la moderna nozione di "messa in scena", ma anche una vita agitata e contraddittoria, anche a livello politico, e poi lo sfruttamento, anche politico, da parte dei successori e soprattutto di Cosima Wagner - che, per inciso, era veramente (e più del marito) antisemita in senso moderno, basta leggere il suo diario - e di quelli di cui si circondava in seguito, antisemiti militanti. E tutto questo si può trovare oggi negli allestimenti wagneriani, perché trovano nell'opera di Wagner il cibo di base, ma nella storia del wagnerismo tutte le guarnizioni.
Ecco quello che spiega l'insieme di proposizioni che alimentano le scene wagneriane e che sono state rapidamente applicate ad altri compositori.
Aggiungerei che la formazione alla regia è relativamente poco sviluppata nella maggior parte dei paesi, ma piuttosto importante in Germania, dove nascono tradizioni, scuole, "botteghe". Tutto ciò che esisteva poco cinquanta o sessant'anni fa oggi ovviamente struttura l'offerta e la diversifica, creando "scuole" e quindi emulazioni nel migliore dei casi e polemiche nel peggiore. Anche se esistevano filiazioni del tipo Brecht -(Jouvet) - Strehler- Chéreau.
Anche la messa in scena non gioca un ruolo indifferente nella storia della creazione contemporanea. Intendo “contemporaneo” dagli anni 1960 in poi. Non sto parlando di compositori come Poulenc, post pucciniano, post mussorgskiano, ma vorrei attingere ad alcuni altri esempi presi da vari paesi:
- Die Soldaten di Zimmermann, un'opera straordinaria che debuttò a Colonia nel 1965, decollò quando la messa in scena di Harry Kupfer trasfigurò l'opera nel 1987 a Stoccarda; questa messa in scena fece il giro dell'Europa e stimolò l'inventiva. Oggi, Die Soldaten si può vedere in diverse produzioni in tutto il mondo (anche alla Scala).
- Nel 1975 Luigi Nono crea Al gran sole carico d'amore, direttore Abbado, regia Yuri Liubimov. La messa in scena è stata un grande successo e ha dato all'opera uno slancio che l'ha portata ad essere regolarmente inserita in diverse produzioni, soprattutto negli ultimi anni. Sta diventando una specie di classico.
- Ci si può anche interrogare sulla questione sollevata dalla creazione nel 1984 del Saint François d’Assise di Olivier Messiaen. La creazione a Parigi è stata affidata al regista Sandro Sequi, che l'ha trasformata in un susseguirsi di figure giottesche di rara noia. Solo nel 1992, con la produzione di Peter Sellars a Salisburgo -indotta da Gérard Mortier-, ripresa all'Opéra di Parigi, l'opera decollò. È un'opera che richiede grandi masse e nessun piccolo teatro può programmarla, ma ora la maggior parte dei grandi teatri internazionali l'hanno programmata e creata, non necessariamente nella produzione Sellars, ma è stata la produzione Sellars a rilanciare la macchina quasi come una nuova creazione dopo un iniziale periodo di esitazione.
Altri esempi potrebbero essere citati, come Einstein on the Beach di Philip Glass, presentato per la prima volta al Festival di Avignone nel 1975, la cui rappresentazione è stata legata per quasi quarant'anni all'opera teatrale di Robert Wilson al punto che si pensava non ci fosse altra via possibile. Solo questa stagione il Grand Théâtre de Genève ha osato un altro regista (con grande successo tra l’altro) ...
L'opera, come l'abbiamo sviluppato in questo dibattito è strettamente dipendente dalla regia oggi e quindi l’opera contemporanea a fortiori, semplicemente perché la creazione è una costruzione a tre, compositore, direttore, regista: questo è il risultato della presenza della messa in scena nell'orizzonte teatrale di oggi. E i teatri sono attenti a legarsi a registi che vanno di moda, co-producendo il più possibile per alleggerire i costi e rendere la produzione piacevole al pubblico (con l'idea subdola che se la musica non piace troppo, la regia compenserà). È il caso delle attuali produzioni delle opere di Georges Benjamin, che hanno successo anche perché i libretti hanno una forza drammaturgica che altri libretti non sempre hanno e perché ha fatto di Katie Mitchell sua regista abituale - anche se stiamo cominciando a vedere altre produzioni delle sue opere. In Francia, il compositore Thierry Escaich lavora con Olivier Py, il regista più alla moda in Francia, direttore del Festival di Avignone, che scrive anche il libretto della sua prossima creazione. La messa in scena è essenziale per la creazione di opere liriche contemporanee al fine di sfondare la parete di vetro che a volte ne blocca lo sviluppo.
Uno dei nostri fedeli lettori, il musicologo Prof. Bufalino Tracotanti, ha preso nota della nostra citazione del noto aforisma wagneriano "Ho inventato l'orchestra invisibile, magari avessi inventato il teatro invisibile", e ci ha insegnato che nel 2014 si è tenuta a Bayreuth una rappresentazione unica di un eccezionale Parsifal, applicando alla lettera l'aforisma wagneriano e le idee degli antichi greci sulla musica ideale, quella che non poteva essere ascoltata. Ecco il resoconto di questo importante evento.
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REGIA PERFETTA DEL PARSIFAL
di Bufalino Tracotanti
Sono costretto ad intervenire ancora per evitare che passino senza la dovuta indignazione le spiritosaggini fuori luogo di Jacobi sulla vocazione wagneriana alla rinascita del Teatro sotto l’egida della Tragedia Greca.
Tutti sanno che la musica nel Teatro Greco era solo subordinata alla parola, e per questo motivo, mentre testi degli Autori delle tragedie ci sono rimasti, della loro musica nulla si sa, perché ritenuta un ornamento aggiunto e non degno di essere tramandato.
Ma quella era la musica udita, non quella che, sempre secondo i Greci, Platone compreso, rappresentava l’armonia universale attraverso i rapporti numerici tra le note, astratta, perciò non udibile.
Non c’è dubbio che Wagner avesse considerato la propria divina musica sotto questo aspetto filosofico, ritenendo ipoteticamente superfluo che le sue composizioni fossero ascoltate materialmente da qualcuno.
D’altro canto, come bene ha ricordato il dott. Cherqui, Wagner odiava le concrete e perciò necessariamente inadeguate messe in scena delle sue trascendentali opere; teorizzava la “scena invisibile”, perché qualsiasi realizzazione visiva è riduttiva rispetto alla complessità associativa ed evocativa della musica.
Tutto ciò senza impedire la rappresentazione in Teatro, tant’è se ne fece costruire apposta uno alla greca, addirittura sacrificando il suo benefattore Principe Ludwig, che fu suicidato per questo: protomartire della Gesamtkunstwerk.
Ed è del tutto evidente che Jacobi ignora l’esistenza della magnifica produzione a Bayreuth del Parsifal nel 2014, probabilmente l’unica ad essere fedele fino alla profondità abissale al pensiero del Maestro, dovuta al genio registico di Maxim Ivanovitch Bidonov e all’eccelso talento direttoriale di Marek Lugubrewski; eppure ebbe risonanza mondiale, anche politica, persino favorendo i rapporti culturali tra l’Occidente e alcuni Paesi di religione mussulmana.
Nelle 237 pagine delle note di regia nel programma di sala in tedesco, inglese e francese (non in italiano, perché la fatica sarebbe stata inutile), Bidonov ha spiegato esaurientemente le sue scelte estreme, ricordando che per Wagner l’opera totale era la fusione di parole, musica e dramma (Wort-Ton-Drama); perciò era conforme alla sua concezione che, ove la musica non dovesse essere udita, neppure dovevano essere udite le parole, e il dramma doveva rimanere nell’immaginazione: così si ridestava il Mito, vale a dire lo svolgimento simbolico di contenuti immaginari i cui significati universali sono comunicati e direttamente vissuti dal sentimento, che è cosa interiore e non orpello ornamentale.
E spiegava come, per non spezzare agli spettatori il flusso del sentimento, che doveva portarli all’estasi, la rappresentazione doveva essere continua e perciò senza intervallo tra gli atti.
Di ciò anche la Direzione del Teatro aveva dato avviso al pubblico con manifesti a caratteri gotici alle entrate, con l’aggiunta che l’uscita per qualsiasi motivo durante la rappresentazione era vietata e sarebbe stata impedita dalle maschere anche con l’aiuto di cani appositamente addestrati ad agire in silenzio, e che era altresì vietato portare all’interno della sala bibite e generi alimentari e di conforto di ogni tipo.
Sarà bene a questo punto che io riporti almeno parte della mia recensione sul sublime spettacolo, pubblicata al numero 2 del 13 settembre 2014 sulla rivista “Il Crauto Musicale”.
“Le luci si spensero, e rimase per un attimo il debole bagliore filtrante dalla fossa orchestrale coperta; poi, il buio assoluto e un silenzio di tomba.
In una mistica concentrazione, il pubblico cominciò a poco a poco ad ascoltare dentro di sé la musica del divino Compositore; e chi non la conosceva prima ebbe la celestiale esperienza di immaginarsela; poi fu il momento dell’introspezione che gettava lo sguardo di ciascuno nel profondo se stesso che vedeva se stesso che sperimentava in se stesso gli effetti delle sensazioni da se stesso create.
Io riuscii a sentire salire in me Buddha, Schopenhauer, Nietzsche e Freud.
Superata questa individualistica soglia, seguì il momento dell’agape degli spettatori, della partecipazione al banchetto religioso del Silenzio Supremo di fronte alle false lusinghe del mondo della musica materiale.
Solo qualche isolato colpo di tosse fu udito dopo circa un’ora e mezza; un paio di gemiti dopo due ore; un tonfo di non certa origine dopo due ore e mezza (si seppe poi che un anziano signore francese, colpito da infarto, era crollato ai piedi di due imperturbabili spettatori olandesi, che, per non interrompere la melodia infinita, meritoriamente lo avevano lasciato seraficamente lì a morire); altri colpi di tosse furono severamente repressi dallo sdegno dei vicini di posto dei trasgressori verso la terza ora; in pratica, nulla di realmente rilevante accadde che turbasse la Sacra Rappresentazione, neppure qualche tenue, accettabile odore prodotto dalle umane necessità di chi, non conoscendo il tedesco, non aveva letto i cartelli prima di entrare.
Dopo quattro ore, si aprì il sipario e comparirono, tutti insieme, vestiti con tuniche candide, cantanti, direttore d’Orchestra, regista, scenografo, costumista, tecnici, e un signore in completo nero e beretto che nessuno ha mai capito chi fosse.
Comprendendo che il Rito era finito, tutto il pubblico scattò in piedi, compreso quello atrofizzato, manifestando incontenibile, rumorosa, plaudente gioia; vennero aperte le uscite, dalle quali entrarono una dolce luminosità seratina e il profumo di Nürnberger Würstchen proveniente dal bar annesso al Teatro; gli spettatori uscirono, appena fuori congratulandosi a vicenda.
Un’esperienza indimenticabile quanto irripetibile”.
Ma invece fu ameno in parte ripetuta, ed anzi ancora perfezionata.
Scrivevo sopra della rilevanza politica e internazionale dello spettacolo; occorre ricordare che la concezione più ortodossa della religione mussulmana vieta l’ascolto della musica, soprattutto occidentale.
Ma poiché nel nostro caso la musica non si sentiva, un Emiro Arabo antisemita fece ricostruire nel suo Paese una riproduzione integrale del Teatro di Bayreuth, nel quale rappresentare l’edizione del Parsifal Bidonov-Lugubrewski; e questi Artisti la perfezionarono, rivisitandola sulla base dell’intuizione dell’Emiro che il Teatro dovesse rimanere vuoto, in modo da una parte di non offendere la sensibilità dei suoi amministrati con la filosofia pseudo-cristiana presente nel Parsifal, e dall’altra di esaltare l’Idea wagneriana dell’opera iperurania, che del pubblico non ha nemmeno bisogno.
E non va dimenticato l’evento creativo che un artista ucraino ha presentato alla Biennale di Venezia nel 2016: un finto teatro di 6 metri per 4, in cui venivano stipati a turni di un’ora 120 spettatori nel buio assoluto e nel silenzio della loro concentrazione.
Tale è la Forza del Mito wagneriano, sul quale ogni spiritosaggine è esecrabile.
Al di là degli esempi singoli di spettacoli, quello su cui evidentemente non siamo d’accordo è sul fatto che secondo te, se ben capisco, una regia (riuscita, non parliamo di quelle brutte) dovrebbe farsi carico di elementi storici e culturali di rivisitazione che rendano attualmente problematiche le opere e i loro personaggi, e come tali anche non immediatamente comprensibili; io posso essere d’accordo con la prima affermazione, ma non sulla seconda: penso invece che gli elementi culturali e storici debbano trovare la loro soluzione solo sul palcoscenico, cioè che il pubblico li possa percepire direttamente con la mediazione dello spettacolo, altrimenti si sarà di fronte ad elucubrazioni intellettualistiche percepibili solo da chi le ha in testa e da pochi altri. Certo questo presuppone una preparazione di base e una disponibilità del pubblico, ma è pur sempre per il pubblico, cui è destinata la comunicazione, che esiste il teatro.
Quanto alla regia, è certamente una scoperta moderna, che può accrescere il significato dell’opera; ma vorrei osservare che – pur bellissima e significativa quando lo è – è legata alla rappresentazione del momento, irripetibile (al massimo riproducibile su supporti tecnici che, comunque, non hanno la dimensione della sala teatrale), mentre l’opera originaria rimane, oggetto di diverse, infinite rappresentazioni nel tempo e distinta dalla sua singola messa in scena.
O meglio: quello che è meraviglioso nel Teatro dal vivo è l’unicità di ogni singolo spettacolo, la capacità di dare sensazioni sempre diverse, che nascono dai mille fattori umani che incidono sul momento della rappresentazione, a partire dalla serata degli interpreti; ma Wagner è sempre Wagner, Verdi è sempre Verdi, e così via; i loro personaggi sono hic et nunc sul palco, per quanto rivissuti con occhi attuali e interpretati più o meno bene.
La regia può essere un fattore maggiormente creativo con le opere contemporanee; anzi, capita che sia più creativa della musica, come in alcuni degli esempi che fai; ma questo perché talvolta l’opera è legata all’evento, e non riesce ad andare oltre perché quello che non regge è la musica.
Uno dei problemi dell’opera contemporanea sta qui, la musica, e spesso anche i testi, non vengono normalmente compresi dalla generalità del pubblico, indipendentemente dall’astratta qualità, e le ragioni sono molteplici. E partono dalla stessa funzione sociale del Teatro; le motivazioni per frequentarlo e la composizione sociale del pubblico sono molto diverse rispetto al passato, e la massificazione del gusto e i moderni strumenti tecnologici comportano preferenze di fruizione, anche come luoghi fisici, diverse rispetto alle sale teatrali, che per quanto grandi possono ospitare un numero limitato di persone.
Inoltre, la sperimentazione sonora – certo indispensabile, anche per la presenta di strumenti musicali e amplificazioni impensabili in passato – è spesso rimasta tale, senza riuscire ad elevarsi a livello artistico definitivo; la musica perde così la possibilità che il pubblico vi si possa identificare.
Cos’è realmente il Teatro oggi? È un problema che riguarda anche la prosa, pur frequentata con una certa frequenza: ma quale commedia odierna rimane realmente in piedi oltre il tempo di una stagione?
Pure qui, le regie contano: ma non vorrei che, anziché aiutare la vita del Teatro, si limitassero a prolungarne l’agonia.
Chiunque ami il Teatro, si deve porre il problema di identificarne la funzione proiettandosi nel futuro, facendo uscire il presente dallo schema del mero evento; e rivalutandone la storia, cosa particolarmente necessaria in tempi in cui, per lo strapotere dei media, non ci si ricorda nemmeno di cosa è successo di importante l’altro giorno.
Cos'è il teatro oggi?
Vasta domanda che queste lunghe settimane di dialogo non riusciranno a esaurire, ma solo a scalfire la superficie.
Data la longevità del teatro, che è sopravvissuto dall'antichità a tante civiltà e culture in varie forme in tutti i periodi della storia e anche in tutti i ceti sociali, non ho alcuna preoccupazione per la sua sopravvivenza, anche se non so davvero in che forma questi incontri di umani seduti davanti a un palcoscenico in cui si svolge uno spettacolo ci sopravvivranno. E questo indipendentemente dall'evoluzione tecnologica e dalla moltiplicazione dei media. La questione del teatro nasce anche dall'esigenza di aggregazione sociale: ricordo ad esempio che il teatro era molto vivo durante la rivoluzione francese (popolare come la ghigliottina), anche se non se ne parla molto. Spesso le crisi lo rendono vivo.
La questione della creazione contemporanea che tu poni e che estendi alla prosa è di ordine diverso, e senza dubbio non legata alle minacce che graverebbero sull'arte teatrale. Nella prosa, il rapporto con i classici è ancora più forte che nell'opera lirica, e rappresenta una base straordinariamente stabile. La creazione contemporanea soffre degli stessi problemi dell'opera lirica in relazione ai libretti, anche se ci sono in Francia testi di scrittori che vanno bene (Joël Pommerat, Michel Vinaver, Wajdi Mouawad...). Resta da vedere, te lo concedo, se andranno oltre l'evento, come dici tu...
Resta il fatto che sia Mouawad che Pommerat si sono confrontati anche di recente con l'opera lirica, il primo con Mozart (Il Ratto dal Serraglio di cui ha cambiato le parti parlate), il secondo con una creazione fondata sul Pinocchio di Collodi, di cui ha scritto il libretto, musica di Philippe Boesmans, uno dei più prolifici compositori di opere liriche oggi, ma le cui opere vengono riprese raramente. Il piccolo mondo gira tra sé e sé...
Girare tra se e se è un male che il mondo artistico conosce da tempo, ricordiamo nel Rinascimento i giochi poetici e le allusioni in certe poesie che solo chi sapeva poteva condividere. Tutto avviene come se una certa creazione avesse bisogno solo del suo pubblico abituale, della cerchia di fedeli per vari motivi, uno dei quali è il successo a poco prezzo e l’altro è forse il forte sovvenzionamento, almeno in Francia (grazie a Boulez), della creazione musicale contemporanea che non richiede per ciò un grande pubblico... Le opere che ho citato hanno avuto o stanno avendo un certo successo, e i teatri sono costretti per contratto a produrre regolarmente opere nuove (La Scala è uno dei teatri che ha creato di più, anche nel Novecento).
Però quando scrivi che la regia arricchisce il teatro lirico, ma che qualunque siano le circostanze, Verdi sarà sempre Verdi e Wagner sarà sempre Wagner, ti ostini a pensare alla regia come a un "plus" sull'opera che sarebbe immutabile e intoccabile. Certo che le opere di Wagner o di Verdi rimarranno, ma ricordati che anche molte opere di Mozart sono sparite per un tempo, non si sa quale opera di Verdi sarà popolare fra vent’anni, forse chissà La Battaglia di Legnano e non Boccanegra, a sua volta non cosi popolare 60 anni fa. Cioè, si, l’opera del compositore rimane, ma qualche volta nascosta all’orecchio del pubblico (come piace al nostro amico Bufalino Tracotanti)
Oggi invece la regia (qualsiasi sia) è indispensabile all'economia della rappresentazione, il pubblico si aspetta che lo sia. Non credo che torneremo mai indietro, tutto si evolverà ovviamente, anche i gusti cambieranno, e tra vent'anni le cose si saranno evolute, ma aggiungeremo degli strati, non toglieremo nulla.
Oggi la rappresentazione è un insieme che dipende anche dalle possibilità tecniche che senza dubbio cambieranno con l’evoluzione tecnologica che conosciamo. Ma in teatro, come diceva il poeta Baudelaire, l'importante è anche il lampadario, cioè la festa, la sala, l'elemento determinante di ciò che rimane, qualunque sia il luogo, è una cerimonia. E allora non spariranno le sale, anche per la festa sociale di cui abbiamo bisogno.
Infine, ed esclusivamente per farti piacere, vorrei anche segnalare la recente apparizione in Francia, ma anche in Italia, di una figura che esisteva solo in Germania, quella del drammaturgo, che si occupa di fare tutto il lavoro su quello che c’è dietro il libretto, sulle possibilità del dramma, e ogni (grande) regista lavora col proprio drammaturgo. Questa figura intellettuale (sono spesso accademici) è inseparabile dalla regia di oggi, è lei che costruisce questi elementi a volte criptici che denunci e che forse non sono leggibili a prima vista... tutto diventa più complesso.
Infine per quanto mi riguarda, non mi piacciono molto le opere in video, e non ne guardo molte, ma ascolto ancora molti CD, probabilmente perché vado spesso a teatro e l'offerta video è spaventosamente mediocre quando si tratta di regia... Quindi penso che lo spettacolo teatrale abbia ancora un futuro, a condizione che i politici non si facciano coinvolgere in strangolamenti economici o privatizzazioni della cultura, che è pura imbecillità e politica miope (è un pleonasmo di questi tempi, non conosco nessun politico in Francia che abbia una politica lungimirante). Perché il pubblico si abitua a non andare più a teatro molto velocemente, e ci vuole molto tempo per tornarci. E sarai d'accordo con me che il teatro - almeno in Occidente - è un segno di Civiltà nel senso più alto del termine.
Certe volte mi sconcerti, perché – non sempre - hai un modo di esporre i tuoi ragionamenti che mi sembra quello di una falena che, dopo averci girato attorno, sbatte sulla luce: non si capisce se cerchi l’Illuminazione o voglia suicidarsi.
Perché ad esempio l’andare e venire nella storia della popolarità di questo o quell’autore, o di questa o quell’opera, non ha nulla a che vedere con la regia se non transitoriamente: riguarda la maggiore o minore vicinanza delle esigenze culturali o emotive della società in un dato momento a quelle originarie; se – e facciamo gli scongiuri – si avvicina un conflitto per ragioni di sovranità, è più probabile che per quel periodo diventi o sia fatta diventare più attuale la Battaglia di Legnano che il Simon Boccanegra (che oltre a tutto contiene una perorazione pacifista tra le più commoventi della Storia).
Ma siccome posso essere io a non capire, e quelle che mi paiono contraddizioni a poche righe l’una dall’altra possono essere frutto di una implacabile logica hegeliana manifestata criticamente da una pioggia torrenziale di coerenti esempi (dal particolare all’Universale), entro nel merito solamente dell’unica cosa che mi sembra chiara, cioè il tuo ottimismo sulla sorte del Teatro, basata questa volta sui concetti di aggregazione sociale e cerimoniale, della festa, della sala, del lampadario.
Spero ovviamente che tu abbia ragione; e so benissimo che, anche se ometti di parlare dell’oggetto della cerimonia, dai per scontato che ci sia.
Certo è che se questo oggetto, anziché aggregare, fa fuggire la gente, la cerimonia ha poco di festa.
Ma i veri problemi, per me, sono che, da una parte, oggi l’aggregazione – specie giovanile – è molto spesso conformismo e desiderio di annullamento di se stessi nella massa; dall’altra, il contraltare dell’aggregazione è stare chiusi in casa con computer, smartfone, telefonini; dall’altra ancora l’assenza di creazioni nuove significative per un pubblico vasto; dall’altra ancora il costo delle produzioni liriche, che non si basa sugli incassi, ma sui sovvenzionamenti; da ultimo (sperando che non ce ne siano altri) nella mancanza di considerazione della musica e del teatro in generale nella scuola, rispetto a tutte le altre arti.
Ma voglio condividere il tuo ottimismo, e lascio da parte la considerazione che le condizioni in cui il teatro è nato, si è sviluppato e vissuto il Teatro non prevedevano la riproducibilità degli eventi negli stessi termini tecnologici di oggi e l’aggregazione era necessaria.
Faccio il tifo per lo spettacolo teatrale, che è reale condivisione attiva (e non passiva o annullatrice di personalità) di emozioni e pensieri, e segno di Civiltà.
Ciò detto, e per tornare alle nostre diversità di opinioni sulle regie, sapevo persino io che alcuni registi operano con figure intellettuali che funzionano da loro drammaturgo, che si occupano di ciò che c’è dietro il libretto, e che spesso sono accademici.
Questo rafforza la mia opinione che, se non si sbriga a fare diversamente, la regia finirà male; non credo che gli accademici siano famosi per il loro senso del teatro (di solito lo sono per la noiosità); e non credo nemmeno che sappiano davvero cosa c’è dietro il libretto, perché, se per esempio dovessero rifarsi ai testi da cui i libretti sono tratti, dovrebbero preoccuparsi prima di tutto di conoscere con quali occhi tali testi sono stati letti da chi li ha scelti; mentre a loro e al regista interessa il contrario.
Aspettiamo un professore di chimica che ci illumini sulla temperatura con cui è stata cotta La Juive; essenziale per spiegare al drammaturgo il cerimoniale dell’esecuzione; fondamentale l’apporto del drammaturgo per la ricostruzione storica del pentolone; decisiva la scelta del regista di non farlo vedere.
Sconcertare l’interlocutore è proprio la tattica del dibattito: tu, avvocato di talento, lo sai benissimo. È un divertente gioco del gatto e del topo che permette anche di affrontare una grande varietà di problemi. Quindi non sono una falena sull'orlo del suicidio, al massimo un "Farfallone amoroso" del dibattito.
Resta il fatto che le domande che poni continuano a spuntare la casella degli stereotipi di chi denuncia le produzioni cosiddette "moderne". Credo comunque che abbiamo anche esposto la maggior parte delle argomentazioni e che forse dovremmo chiudere il dialogo e aprirne un altro.
Certo, le mode e i titoli dipendono molto dalle situazioni storiche e sociali: è ovvio che il Cosi fan Tutte fiorisce oggi in questi tempi di crisi della coppia e della contingenza dei sentimenti, e ancora di più dopo #Metoo, per il modo in cui Da Ponte e Mozart considerano le donne. Quindi l'opera rimane, ma lo sguardo su di lei va avanti e indietro e la regia si nutre di questi cambiamenti.
Ciò che forse ci divide: per me la regia è un'arte, un'arte giovane, un'arte del Novecento. Certo, non tutti i registi sono grandi artisti, così come non tutti i registi cinematografici sono grandi artisti. E come arte, ha bisogno di regole, di pratiche: la sua storia è ancora giovane ma già fornita. Si tratta di saper distinguere l'arte reale dall'artificio, cioè l’arrosto dal fumo, al momento della rappresentazione. Così come i romanzi che escono non sono tutti capolavori - nonostante il successo eventuale del momento.
Ci sono professionisti onesti (non tutti) e ci sono grandi maestri. Ma per me la regia è un'arte che ha i suoi capolavori, anche se il teatro è l'arte dell'effimero e dell'hic et nunc. Non sono contrario alla ripresa video di produzioni teatrali o liriche, purché siano usate essenzialmente come testimonianza o oggetto di studio. Perché è un'arte dell'hic et nunc, è ovviamente un'arte del momento, dell’attimo fuggente. Non tutti possono accedervi, per ovvie ragioni logistiche, soprattutto in Francia e in Italia. La fitta rete di teatri in Germania rende le cose più facili e quindi più comuni. Quindi è una questione di politica, mi ripeto, ma penso che sia una delle chiavi del problema, così come il problema della scuola: ci sono insegnanti che non vanno mai a teatro, e ancor meno all'opera. Non è solo colpa del sistema o dell'istituzione. È anche la colpa - la colpa più grande - di individui che non dovrebbero esserne esonerati; molte persone, per nascondere le loro inadeguatezze, invocano la mancanza di formazione...sciocchezze. Attraverso la mia professione ho visto molti insegnanti nelle loro classi e ho visto la loro tremenda ignoranza del teatro, e ancora di più di quello che era la regia...
Tuttavia, se vogliamo considerare il teatro (e l'opera, soprattutto in Italia dove è un'arte fondamentale della cultura italiana) come elemento di civiltà, si pone ovviamente la questione della cultura nella nostra scuola, cultura intesa al di là della semplice materia scolastica. La cultura è purtroppo un elemento di discriminazione sociale che solo la scuola può cercare non di eliminare ma di attenuare, e mi chiedo ancora se la questione della cultura come distinzione (nel senso dato alla parola da Pierre Bourdieu) non sia anche un elemento di conservazione di privilegi di classe, di quel “tra se e se” di cui sopra si parlava.
Tuttavia, sono ottimista per il teatro perché è sopravvissuto a tutte le forme di regime politico e di religione... Il cattolicesimo ha escluso gli attori per molto tempo, altre religioni sono diffidenti nei confronti di un'arte che - anche se di origine religiosa - sembra immorale, amorale ecc... ma la morale e la religione non sempre vanno d'accordo.
Il lampadario è importante, cioè l'incontro sociale, ma anche, e hai ragione, lo spettacolo che vieni a vedere: l'offerta è sufficientemente diversificata per non spaventare gli spettatori. Ma mi piace un teatro che, quando deve, si oppone, che fa infuriare il pubblico perché è un teatro che respira, e che non si addormenta in un consenso zoppicante. A questo proposito penso ancora che Gérard Mortier avesse ragione, nonostante quello che si può pensare. Quando ho visto La Signora delle Camelie a Parigi nel 2012, diretta da Frank Castorf, con un pubblico arrabbiato, metà del quale se ne andava urlando all'intervallo, compresi noti professionisti del teatro: mi vergognavo semplicemente che un lavoro teatrale così elaborato potesse essere considerato l'ultimo dei lavoracci, soprattutto da parte di professionisti che ci si poteva almeno aspettare vedessero lo spettacolo fino alla fine.
Tale violenza è un segno dell'intolleranza strutturale dei nostri tempi. Come la lettera che ho ricevuto e che è riprodotta nell'introduzione a questo dibattito.
Infine, c'è un altro aspetto, che è forse la "sociologia storica" del genere. In Germania, - e per certi versi in Francia, il teatro è un elemento strutturale della città. Questo vale ancora oggi in Germania, meno in Francia, dove tra discorso, incantesimi e atti reali c'è talvolta una notevole differenza... Ma in Italia c'è sempre stato un teatro legato alle corti principesche più che alla cittadinanza: è il caso dell'opera lirica, la cui sopravvivenza dimostra anche che questa tradizione è aristocratica e non "sociale", anche se c’è (o c’è stato) in Italia per l’Opera lirica un autentico pubblico popolare; ci sono nel complesso pochi "Teatri sociali" in Italia, che hanno fondato la loro esistenza attraverso l'attivismo di cittadini locali. La nozione di teatro "popolare" (soprattutto per la prosa) non è così sviluppata come in Francia. E, più in generale, il teatro di prosa non è molto protetto, per non parlare della professione di attore.
Queste differenze locali esistono e spiegano anche letture più o meno ottimistiche. Quando un teatro chiude in Germania - ovunque si trovi - è un affare nazionale con petizioni, articoli su giornali nazionali ecc... Già in Francia ne siamo lontani, e non credo che in Italia la vicenda si sposti molto al di fuori dei confini della città.
Ultimo punto, sono d'accordo sul fatto che la riproduzione attraverso la tecnologia digitale è oggi un elemento forte delle pratiche culturali dei giovani. Ma la presenza di serie, di attori che recitano, di finzione sviluppata è anche un elemento che più o meno alimenta la scena teatrale. Andiamo a vedere "nella vita reale" figure che abbiamo visto in film o serie televisive, e la messa in scena in teatro si nutre (molto in questo momento) di cinema o serie televisive... Scambi di buone pratiche, e nutrimento reciproco: il mondo dello spettacolo ha bisogno dello spettacolo dal vivo... e della regia dal vivo.
Penso anch’io che sia il momento di chiudere questo dialogo; non ho più molte argomentazioni da esporre, soprattutto quando mi dai ragione su quella principale: cioè che è sulla rappresentazione concreta che si deve dare il giudizio, non su cose che in essa non si vedono o non si capiscono, rendendo indispensabili spiegazioni ad essa esterne.
Dici infatti benissimo che “Si tratta di saper distinguere l'arte reale dall'artificio, cioè l’arrosto dal fumo, al momento della rappresentazione”.
Ciò ovviamente non esime dall’approfondimento degli stimoli che vengono proposti, ma questo è cosa diversa dal risultato sul palcoscenico, che può dare o non dare stimoli che meritino approfondimento.
E vorrei ricordarti che, se parliamo di regie “moderne”, non è perché l’abbia scelto io per stereotipare o mi piaccia prendermela con loro, ma perché tu hai introdotto il dibattito sul come mai molte o alcune di esse vengano fischiate; per stare al tema non aveva senso che io parlassi di quelle che non vengono fischiate, e per quelle contestate ho cercato di rispondere che questo può derivare anche dalla incapacità comunicativa o di trasformare la sperimentazione in risultato, dalla ricerca routinaria di espedienti provocatori, dall’intellettualismo esasperato, o dallo stravolgimento ingiustificato del significato artistico e morale delle composizioni originarie e delle intenzioni degli autori, mentre tu in sostanza te la prendi con l’ignoranza del pubblico.
Certo il pubblico può sbagliare, e perché un giudizio sia attendibile, bisogna che chi lo da abbia la competenza e la disponibilità almeno sufficienti per uscire dalla mera sensazione soggettiva primaria, ciò che è più facile se l’offerta teatrale è più diffusa; ma solo in questo senso posso accettare la logica di Adorno, secondo cui se un’opera è d’arte, non è per tutti.
Il Teatro è nato in Grecia per essere per tutti; se è vero che l’opera lirica è invece nata nei circoli intellettuali elitari e nelle corti, quando si è trasferita nei teatri pubblici si è abbastanza velocemente trasformata in spettacolo destinato a tutti quelli che i teatri potevano frequentarli, compresi borghesi e popolani, ed ha ricoperto funzioni culturali e politiche tutt’altro che destinate a pochi.
Tornare nei circoli ristretti e dai linguaggi allusivi ed esoterici alla Pico della Mirandola non credo farebbe oggi e in futuro il bene del Teatro.
Altro discorso le provocazioni: servono se sono intelligenti; qui si vede la bravura dei registi; e ce ne sono di molto bravi, i quali fanno capire non solo che stanno provocando, ma anche l’esistenza di un solido perché lo fanno (fosse pure per solo divertimento).
Quanto ai critici non so cosa dire; è Jago che dice “Io non sono che un critico”.
Credo opportuno fare ancora alcune precisazioni.
- Anche per me la regia è un’arte, non l’ho mai negato, e non è questo che ci divide.
- Anche per me il Teatro non esiste senza l’hic et nunc; le emozioni dello spettacolo dal vivo sono irripetibili, comprendono ambientazione, luci, odori, variabili delle prestazioni artistiche e anche di umore del singolo spettatore e dei suoi rapporti con il sentire degli altri partecipanti, ecc. ecc.; esse rimangono in noi, ma non c’è alcuna riproduzione che le possa far rivivere. Un film o una ripresa televisiva hanno caratteristiche diverse. Non li disprezzo, ma si tratta di una realtà mediata, con caratteristiche artistiche, tecniche e di fruizione proprie. Semmai mi preoccupo del fatto che ci stiamo sempre di più allontanando dalla materialità delle cose, tutto rischia di diventare virtuale, affetti e persino istinti lontani dall’oggetto in carne e ossa, lasciando la realtà ai dannati della terra e svegliandoci solo davanti alle nostre disgrazie, che presto o tardi però arrivano, trovandoci impreparati. Ma questa è una questione ben più generale.
- Anche per me il Teatro è un elemento di civiltà, purtroppo trascurato dalle istituzioni scolastiche, da coloro che in esse operano e in generale (ma di conseguenza) dalla masse e persino da molti che lo frequentano.
- Anche per me la cultura, al di là dell’insegnamento scolastico, è un elemento di discriminazione sociale e può essere un elemento di conservazione di privilegi di classe; ma solo la cultura che vuole essere elitaria, mentre quella vera è una leva per abbattere qualsiasi discriminazione e qualsiasi privilegio.
La cultura vera è umile, e volta alla partecipazione. Il Teatro, oltre che divertimento e catarsi, è cultura e partecipazione; speriamo non prevalga il colore viola.
Ti racconto un aneddoto: un giorno Louis Jouvet stava provando Don Juan e nella discussione un attore gli ha parlato delle intenzioni di Molière. E Jouvet ha risposto: "Ah? come fai a saperlo? L'hai chiamato al telefono? Dammi il suo numero per favore!».
Come si vede, la questione delle "intenzioni dell'autore" non è nuova e da tempo suscita dubbi. È un punto che sembri confondere con "lo spirito profondo dell’opera".
Il compositore o l'autore, pubblicando, mette a disposizione del pubblico la sua opera e non ha più alcun controllo su di essa. Tutto va poi da solo. Rimane immutabile, ma è fatto di ciò che il lettore/spettatore fa e comprende. Bisogna sempre diffidare dalle "intenzioni" degli autori. Quante prefazioni che sono dichiarazioni d'intenti alle quali l'opera non corrisponde affatto: è molto comune con Racine, ma anche con Molière e molti altri. Quindi non ritengo rilevante rispettare le intenzioni dell'autore, per la buona ragione che non le conosciamo e non le conosceremo mai. Quando autori parlano della loro creazione, la posta in gioco (di fronte al pubblico, ai posteri, alla politica...) è molto più ampia di un semplice discorso su un'opera. Guarda tutto quello che Šostakovič ha dovuto dichiarare e dire e scrivere per navigare tra gli ostacoli e le follie dello stalinismo, a tal punto che in occidente la sua musica non era suonata tanto fino agli anni 1980. E guarda cosa resta di tutto questo di fronte a tutta la musica che ha lasciato e come va oggi suonata dappertutto.
Inoltre, come abbiamo già detto, le famiglie, gli eredi e gli assegnatari difendono un autore o un compositore in nome di criteri soggettivi, in nome delle loro idee sull'opera (generalmente molto conservatrice e chiuse), motivi per cui si dà del lavoro agli avvocati per guadagnare un po' di soldi (scusami) e difendere intenzioni che non conoscono meglio di te o di me.
Recentemente, i discendenti di Poulenc hanno attaccato il DVD di Dialogues des Carmélites, regia di Dmitri Tcherniakov (sempre lui), a causa di un finale che avrebbe snaturato le "intenzioni" di Poulenc. Fortunatamente, hanno perso nei tribunali francesi (tanto più che la produzione è una ripresa che viene da Monaco di Baviera).
In nome di cosa può una famiglia difendere un'opera che appartiene al pubblico e non appartiene alla famiglia? Hanno dei diritti economici sulla detta opera, questo è sufficiente; per me, non hanno alcun diritto morale.
È questa autonomia dell'opera che, a mio avviso, dovrebbe guidarci, e non l'opinione del compositore o le sue supposte intenzioni. Questo è un punto su cui non siamo d'accordo, indipendentemente dalla qualità della regia, o dalla rilevanza della lettura.
Ciò che difendo dalla regia è la libertà di lettura, purché sia pertinente e intelligentemente realizzata (ai miei occhi). Ritengo che La Traviata di Tcherniakov sia un'interpretazione intelligente e sensibile, e soprattutto profonda, che rende piena giustizia a Verdi. Le regie barocche di Pizzi avevano la pretesa di ricostruire un mondo scomparso fatto di piume e oro. Sappiamo che questo mondo scomparso era un altro, ma non importa, avevano una tenuta e un'estetica affascinante e Pizzi è un grande artista.
D'altra parte, anche la questione dei mezzi è un falso problema: i fratelli Cesare e Daniele Lievi hanno iniziato la loro carriera nel piccolo Teatro dell'Acqua di Gargnano, senza grandi mezzi e vi hanno sviluppato tesori di ingegno. Stessa cosa per Peter Stein a Berlino... il fatto di avere poi a disposizione mezzi importanti non ha dato nessun genio in più. Per questo mi dispiace per i manager che si rivolgono a registi mediocri nei teatri medi invece di cercare giovani talenti. Ma cercare tali registi vuol dire anche avere competenze…
Tu parli dell’hic et nunc e io sono d'accordo. Ma le tracce lasciate da uno spettacolo nella memoria, le immagini che ne conserviamo, i ricordi che abbiamo delle reazioni vissute in quel momento fanno anche parte della carica emotiva e intellettuale di uno spettacolo che si diffonde nella mente degli spettatori, come la peste che Antonin Artaud descrive in "Il teatro e la peste" 2. In questo senso, il teatro è un'epidemia. Auguriamo che ci infetti per molto tempo a venire.
Seguendo il consiglio di Louis Jouvet, e avendo Santi in Paradiso, ho avuto il numero di cellulare di Giuseppe Verdi, e gli ho telefonato.
Gli ho chiesto scusa per il disturbo, e gli ho spiegato le ragioni della mia chiamata:
- MJ: “Maestro, poiché c’è una discussione critica in merito, vorremmo tanto sapere quali erano le Sue intenzioni nel creare il Don Carlos”.
- GV: “Fare molto denaro”.
- MJ: “Intendevo riferirmi alle Sue intenzioni artistiche; il problema registico riguarda in particolare il carattere di Posa, che alcuni ritengono un uomo generoso, altri un ipocrita carrierista”.
- GV: “Non è capace di ascoltare la mia musica? Io purtroppo non ne ho più il controllo. Arrangiatevi”.
E, credo irritato, ha chiuso bruscamente la conversazione.
Questa telefonata mi ha permesso di capire quanta ragione hai di non fidarti delle dichiarazioni (in vita) degli Autori, e poi dei loro parenti, dei loro amici, degli interpreti originari; e meno che meno degli eredi in caccia dei diritti economici.
Solo che per ricercare le “intenzioni” dell’Autore, io non mi riferivo a queste, ma a ciò che è ricavabile dalla partitura (quando c’è, ovviamente; un po’ meno dal libretto) che, per quanto tu la possa calpestare, stiracchiare, comprimere, torturare e persino mutilare, ha una base impressa da chi l’ha scritta su un materiale foglio.
Leggendo il quale, per esempio, riterrei difficile interpretare la musica del duetto della dipartita di Gilda tra le braccia di Rigoletto come qualcosa nell’intenzione dell’Autore destinata a far ridere; naturalmente qualcuno può ridere lo stesso, ma tenderei ad escludere che questa fosse l’intenzione di Verdi.
Sono d’accordo che l’Autore o gli Autori, pubblicando, mettono a disposizione la loro opera e che, soprattutto se defunti, perdono il loro controllo su di essa; ma penso anche che, vivi o morti, vorrebbero che chi ne dispone si rendesse almeno conto che quella che ha in mano è la loro opera, e non un’altra; anche perché è l’esistenza della loro creazione che ne rende possibile un uso, e, pur avendo in comune la messa a disposizione di un bene, non sono la stessa cosa la vendita e il prestito e l’eredità (per non parlare della rapina).
Ma questo per te è irrilevante, perché quello che conta per te è la lettura che altri ne fanno.
Mi rendo conto che senza lettura di qualcuno un libro è come non esistesse e che non c’è nulla di più fastidioso di chi, fosse pure l’Autore, ti voglia imporre come devi leggerlo.
Chi nega la libertà di lettura? Ciascuno sceglie cosa leggere e ricava soggettivamente quello che può o vuole dalla lettura; ma qui parliamo della trasmissione a terzi di quello che si è riusciti a recepire, e non è detto che questi terzi debbano essere d’accordo con tale recepimento. Per di più, in Teatro conta assai la forma della trasmissione; ed è chi trasmette che è responsabile della trasmissione, e se ne deve assumere la responsabilità.
E’ il destinatario della trasmissione che ne giudica l’efficacia; vogliamo lasciare anche a lui libertà di lettura, che gli spetterebbe doppia, sia dell’opera originaria, sia di quella che gli viene offerta con lo spettacolo?
Tu hai i tuoi gusti, condizionati dall’entusiasmo per la regia, che ritieni la cosa attualmente più attuale e stimolante della rappresentazione operistica; ripeto che ciò ti porta a un pregiudizio positivo sulle regie “innovative”, pregiudizio che, essendo tu un fine critico, riesci per altro spesso a superare quando il risultato non è all’altezza.
Io rispetto i tuoi gusti, ma non ho entusiasmi da neofita; se la regia, tradizionale o innovativa, contribuisce all’accrescimento delle sensazioni musicali e della comprensione intellettuale dell’opera e crea spettacolo teatrale, l’apprezzo; altrimenti no, ma non per questo riterrò che l’opera rappresentata sia morta, nonostante che la regia cui era affidata (secondo te) la sua sopravvivenza abbia tentato di ucciderla; e tornerò a vederla con altra regia, sperando che la libertà di lettura venga usata meglio.
Continui a svolazzare qua e là e a fare esempi delle produzioni più disparate, ma evadi il tema che tu stesso hai posto: perché più sovente vengano fischiate dal pubblico certe regie “moderne” rispetto alle più ordinarie regie “tradizionali”; io ho cercato di fare delle ipotesi, tu no.
- Mi scuso se, dopo avere detto che era meglio chiudere il dibattito, sono di nuovo intervenuto, ma anch’io, misero spettatore, difendo la mia libertà di lettura.
FINE DEL DIALOGO (27 MAGGIO 2020)
References
1. | ↑ | Oskar Panizza (1853-1921), scrittore e poeta tedesco morto in manicomio vicino a Bayreuth |
2. | ↑ | Il Teatro e il suo doppio, Piccola Biblioteca Einaudi |
2 commenti
Una noiosissima Traviata di repertorio o il Così fan Tutte da Guth interpretato come prologo alla Cavalleria Rusticana ? Le opere d'arte dopo millenni parlano ancora.
Se cerco quelle emozioni perché l'estraneamento ? Didattica fa rima con imposizione ? Aida di Verdi o Aida da Verdi (che può essere peraltro bellissima)?.
Il mio intervento non voleva essere sorridente.
Se non sono preso sul serio, non darò più alcun contributo.