Il 5 novembre si terrà la prima esecuzione di una musica del compositore bolognese nella celebre sala newyorkese: in programma, il Concerto per violino e orchestra nella nuova versione. Nel 2020 Vacchi sarà al Maggio fiorentino con Jeanne Dark (su libretto di Stefano Jacini da Voltaire) e alla Scala con un'opera di teatro-danza tratta da La ragazza che non voleva morire di Emmanuelle De Villepin. Nel febbraio 2019 è previsto un ciclo di 4 concerti a lui dedicati dalla "Verdi" di Milano. "Cerco da sempre un linguaggio comunicativo, che emozioni, ma senza scorciatoie", dice a Wanderer.
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Affettuosa, emozionante, carezzevole, cantabile. Ma anche tesa, ricercata, rigorosa. Senza compromessi, senza concessioni semplicistiche. Così è stata definita la musica di Fabio Vacchi, «compositore sirenico», come lo giudicò Enzo Restagno in un documentario monografico girato da Sky Classica nel 1997. Nato a Bologna nel 1949 ma ormai “milanese” in pianta stabile, Vacchi è, in assoluto, uno dei compositori viventi italiani più amati ed eseguiti. Specie, si direbbe, in queste settimane, così dense di appuntamenti con la sua musica: Love’s Geometries per orchestra ai Pomeriggi Musicali di Milano (18-20 ottobre), il Quartetto d’archi n° 5 per l’EstOvestFestival di Ivrea (4 novembre), la Sonata per pianoforte a Imola per l’esecuzione di Andrea Lucchesini (6 novembre). E due appuntamenti davvero speciali: uno, appena trascorso (31 ottobre), al Petruzzelli di Bari, dove il solista Enrico Dindo ha dato vita, con l’orchestra dell’istituzione diretta da John Axelrod, alla prima assoluta del Concerto per violoncello e orchestra; l’altro, il prossimo 5 novembre, nientemeno che nella Sala Stern della Carnegie Hall di New York, dove Balazs Kocsar (che si alternerà sul podio con Placido Domingo) dirigerà l’orchestra dell’Opera di Stato Ungherese nella prima della nuova versione del Concerto per violino e orchestra (Natura Naturans), solista Nagao Haruka, già proposta in anteprima a Budapest il 12 ottobre. A Bari, dice Vacchi a Wanderer, «l’accoglienza del Concerto per violoncello da parte del pubblico mi ha confortato sul senso della mia ricerca di sempre, quella di un linguaggio comunicativo, evitando però scorciatoie. E ho ricevuto complimenti commoventi anche dagli orchestrali». Non c’era modo migliore, insomma, per concludere la sua esperienza di compositore in residence presso l’istituzione guidata dal sovrintendente Massimo Biscardi. Ora Vacchi resta compositore in residence alla Orchestra Verdi di Milano, che il prossimo febbraio gli dedicherà un ciclo (nei giorni 5, 7, 8 e 10) in cui si ascolteranno, fra l’altro, proprio il suo Concerto per violino, solista Domenico Nordio, e quel capolavoro riconosciuto che è Dai Calanchi di Sabbiuno(qui nella sua versione originale cameristica, non in quella orchestrale che Vacchi realizzò su commissione di Claudio Abbado).
Maestro Vacchi, è la prima volta di una sua composizione alla Carnegie Hall?
Sì, lì debutto. Ed è emozionante. Ma negli Usa ho avuto il mio battesimo con il Koussewitzky Price e, tra le esecuzioni varie, con i Calanchi di Sabbiuno proposti in importanti città, ho anche vinto, nel 2002, il Lully Award per il miglior brano straniero, con il Quartetto n.3 eseguito dal Tokyo Quartet. La Carnegie Hall è la punta di diamante della musica newyorkese, e New York è per me la punta di diamante del pensiero tollerante e illuminato statunitense.
Il concerto, nella prima parte, prevede un trionfo di italianità. Non solo Vacchi, ma anche tre brani orchestrali di Aldo Finzi. Rari.
C’è una collaborazione tra la Fondazione Finzi e l’Orchestra dell’Opera di Budapest, tesa a recuperare la “musica negata” per via delle leggi razziali, e non solo. Mi sembra un intento nobilissimo, e per questo ho accolto con gioia l’accostamento con il mio Concerto per violino, che avevo composto per il Petruzzelli di Bari due anni prima.
Concerto che lei ha rielaborato per l’occasione, a poca distanza di tempo dalla sua creazione. Non è inusuale?
Non è raro che i compositori rivedano e ripensino le loro partiture. Ho tagliato la cadenza tra primo e secondo movimento, aggiunto un’introduzione orchestrale, fatto tante piccole limature interne, su dinamica e orchestrazione... e ora lo sento ancora più mio.
Perché Natura naturans?
Il rapporto dialettico tra il violino e l’orchestra richiama lo “scambio” tra elementi della natura che si arricchiscono a vicenda. Mi ha guidato l’idea di una natura che si rigenera, coinvolgendo nella sua rinascita continua anche l’uomo, che deve imparare a rispettarla, a rispettare tutte le comunità e popolazioni che la abitano. Una natura che può insegnarci l’attenzione all’ambiente e agli altri esseri viventi, animali compresi, non la chiusura, la violenza, la sopraffazione.
Un passo indietro: nel Concerto per violoncello compare la musica gusle, serbo-albanese. Restagno, nel documentario di Sky Classica del ’97, parla, a proposito degli elementi caratteristici della sua musica, di un «folclore immaginato, sognato», non certo di banali citazioni. È ancora così?
Sì. La musica etnica è sempre stata una linfa vitale, per me, sia pure in modo mediato. In questo caso, mi è stato prezioso il lavoro dell’etnomusicologo Nicola Scaldaferri, che mi ha fatto conoscere alcune trascrizioni bartokiane di musiche Gusle catturate col magnetofono. Nel Concerto, la citazione si trasforma in sogno...Il Gusle è affascinante, all’origine del mio innamoramento per la musica etnica: è qualcosa che ci riporta molto indietro nel tempo, addirittura ai cantori omerici.
Il suo interesse per la musica etnica ha a che fare direttamente con il suo frequente e insistito richiamo alla necessità del dialogo fra le culture?
La musica etnica mi interessa perché mi aiuta a cogliere il gesto musicale primario, che riporta alle origini comuni, da cui poi si sviluppano culture specifiche che devono dialogare, fondersi, incontrarsi. Abitiamo tutti lo stesso mondo, nasciamo tutti dalla stessa natura naturans.
Tra i suoi progetti del prossimo futuro ci sono due opere di teatro musicale, per il Maggio fiorentino e per la Scala, entrambe nel 2020, e un lavoro per le periferie parigine. Cosa può anticiparci?
Il progetto parigino è ancora in divenire, l’unica cosa certa è che ho avuto l’avallo, per me preziosissimo, di un amico e un uomo straordinario come Renzo Piano. Al Maggio (dove Vacchi debuttò come operista nel 1982 con Girotondo, ndr) porterò la mia quarta opera “fiorentina”, Jeanne Dark, su libretto di Stefano Jacini tratto dalla Pucelle d’Orléans di Voltaire, un testo ironico, sarcastico, dissacrante, per la regia di Federico Tiezzi. Alla Scala si tratterà di teatro-danza, con due cantanti, una voce recitante e il corpo di ballo. Sarà un’opera tratta da La ragazza che non voleva morire, un romanzo che ho amato moltissimo di Emmanuelle De Villepin. Il tema, qui, è il terrorismo, come spirale nella quale è difficile scindere la causa dall’effetto.
A giudicare dalla sua fortuna come compositore, l’Italia parrebbe un paradiso della musica contemporanea. Purtroppo le cose non stanno esattamente così.
I compositori non sono supportati quanto dovrebbero dalle istituzioni concertistiche, dai teatri, dalla critica, dalla stampa. Per questo ho scelto di avviare un corso di alto perfezionamento musicale alla Scuola di Fiesole, e tengo i contatti con giovani o meno giovani colleghi che mi scrivono, mi cercano.
Colpa di teatri e associazioni concertistiche o, piuttosto, di un deficit di formazione del pubblico?
Per la mia esperienza, il pubblico è un falso problema. Certo, se la scuola ponesse di più l’accento sull’educazione musicale questo aiuterebbe, ma non credo che la musica d’oggi abbia bisogno di una preparazione speciale. Il fatto è, invece, che la musica contemporanea va scelta.
L’ha detto lei stesso, in un’intervista all’Ensemble Musagète: «Dal tempo della ricerca bisognerebbe passare a quello del “ritrovamento”».
È così. Dal solo cercare bisogna passare anche e soprattutto al trovare. Bisogna sperimentare, forzare i limiti, ma anche accettarli, riscoprirli, reinventarli. Quelli storici, culturali, antropologici, percettivi, fisiologici. L’ho imparato anche da mio fratello Andrea, che è un fisico nucleare...
Perché ha dedicato il concerto di Bari e quello di New York a Livia Pomodoro?
Ho dedicato il dittico nato al Petruzzelli a una grande donna pugliese, una cara amica che si è impegnata nella giustizia, nella società, nell’arte, nella tutela dei minori.
La sua sensibilità per la tutela dei minori (la Pomodoro è stata fra l’altro presidente del Tribunale dei Minori a Milano) ha a che fare con la sua situazione personale, vero?
Sì. Io e Lidia (Lidia Bramani, musicologa di fama, ndr) adottammo tre bambini russi. Che oggi sono ragazzi tra i 16 e i 20 anni. Un’esperienza meravigliosa ma che cozza con immensi muri sociali e che richiede un modo nuovo di concepire la famiglia, il mondo. Ancora una volta, natura naturans….