Corrado Rovaris, 52 anni, bergamasco di Grumello del Monte, è il paradigma del musicista completo. Figlio dell’organista della chiesa parrocchiale, fin da piccolo ha familiarizzato con la musica e il canto. Si è diplomato al Conservatorio di Milano con Luigi Benedetti, in organo, e in clavicembalo con Emilia Fadini, famosa pioniera della “prassi storica”. È stato, tra il 1992 e il 1996, assistente di Roberto Gabbiani al Coro del Teatro alla Scala. Ha una solida esperienza di continuista, e accompagnare i cantanti è il suo pane. Ma nella sua formazione, base di una folgorante carriera di direttore che è partita dal debutto con l’Aslico nel 1994 (Il filosofo di campagna di Baldassarre Galuppi) ed è approdata all’Opera di Philadelphia nel 2004 con l’assunzione della carica di music director, non hanno forse minore importanza quegli anni in cui, liceale, «per fare qualche soldo», come mi racconta, suonava in un quartetto jazz nei piano bar della Sardegna vacanziera. A un giornalista del New York Times che lo intervistava nel maggio del 2015, Rovaris, filologo e cultore del belcanto, confessava, dopo aver “creato” una opera-jazz di Daniel Schnyder, Charlie Parker’s Yardbird, di sentirsi finalmente, a dispetto delle apparenze, “a casa”: «Penso che la musica barocca sia più vicina al jazz che i due secoli successivi di musica classica, per via dei cambi di ritmo e delle improvvisazioni…».
Corrado Rovaris ha salutato, per ora, la Pennsylvania. A due anni da una Anna Bolena con Carmela Remigio che ha ricevuto un Premio Abbiati della critica, è tornato a Bergamo per il festival Donizetti Opera. Mercoledì sera, 29 novembre, alle 20.30, nella stupenda cornice della Basilica di Santa Maria Maggiore, in città alta, dunque nel giorno in cui nacque Donizetti e nel luogo in cui è sepolto, dirigerà una rarità, quel Requiem che don Gaetano scrisse per la morte di Vincenzo Bellini nel 1835 e che fu eseguito per la prima volta solo nel 1870. Ne esistono a tutt’oggi solo sparutissime tracce discografiche. «Chiedermi di dirigere quest’opera è stata una proposta di grande interesse e intelligenza. Quando Micheli, il direttore artistico, me l’ha fatta, ho accettato con gioia», dice Rovaris a wanderersite.com. Tra i solisti ritroverà proprio la Remigio.
Rovaris, scrive www.operaphila.org , è “Jack Mulroney music director”. Che cosa significa?
Negli Usa i teatri sono privati. Spesso una posizione è associata a uno sponsor. Jack Mulroney era il direttore generale dell’Opera di Philadelphia, colui che mi convinse ad andare lì. Dopo che è mancato, la vedova ha voluto che fossi associato, nella carica di direttore musicale, alla memoria di suo marito. Un onore, per me.
Le Nozze di Figaro sono state galeotte con Philadephia, è così?
Sì. Mi invitarono a dirigerle nel 1999. La cosa funzionò, eccome. Tant’è vero che subito dopo mi invitarono per una Italiana in Algeri, poi per un Don Giovanni, una Traviata…Mi chiesero molto presto, quasi subito, se volessi fare il direttore musicale da loro. E anche di trasferirmi lì. All’inizio esitai. Poi mia moglie mi spinse ad accettare. Solo vivendo lì si poteva fare un vero “lavoro sul campo”. Posso davvero dire che si è trattata, sino ad ora, di un’esperienza straordinaria. Lavorare lì è stupendo. Per l’etica del lavoro che hanno gli americani. E poi per il collegamento con il Curtis Institute, che è una scuola di musica di eccezionale livello. Proprio con loro dirigerò a marzo una produzione di A quiet place di Bernstein.
Qual è stato, a grandi linee, il percorso artistico della programmazione in tutti questi anni, dal 2004 ad oggi?
All’inizio, più che altro, facevo solo opere del grande repertorio. Ma cominciammo subito a sfruttare la sala piccola, da 600 posti, per fare opere da camera e contemporanee. Insomma, per sperimentare. Ora il repertorio può ben dirsi trasformato.
E si vede. La stagione è iniziata con un festival in settembre, che quest’anno comprendeva ben tre opere in prima mondiale: Elizabeth Cree (di Kevin Puts su libretto di Mark Campbell), opera inaugurale con Rovaris sul podio; We shall not be moved (di Daniel Bernard Roumain, su libretto di Marc Bamuthi Joseph); e The wake world (libretto e musica di David Hertzberg, che è composer in residence). Il dominio della musica d’oggi. Privilegiate degli stili, in particolare?
Spingiamo tantissimo sul repertorio contemporaneo. Ma stilisticamente non privilegiamo un orientamento particolare. Cerchiamo di rappresentare tutto il movimento della musica contemporanea americana nel suo insieme. C’è il compositore un po’ più di “avanguardia”, quello più melodico, quello che ibrida le conoscenze accademiche con il jazz o il blues. C’è di tutto. Abbiamo anche dei compositori in residence con i quali facciamo un progetto particolare di double exposure, di doppia esposizione: a due di loro facciamo scrivere musiche su un medesimo libretto.
Una grande apertura al nuovo, non c’è che dire. E a proposito di opera e influssi jazz, tra i successi maggiori di anni recenti bisogna menzionare Charlie Parker’s Yardbird.
Sì. Portai quest’opera, oltre che a Philadelphia, all’Apollo di New York. Un tempio. Nacque da una mia idea. Avevo conosciuto a Losanna Daniel Schnyder, un compositore svizzero ma residente negli Usa. Mi ero innamorato della sua musica. Un autore affascinante, di solida struttura classica ma, anche, di profonda cultura jazzistica. Lo invitai ad Artosphere, il festival che ho fondato nell’Arkansas, e lì mi venne in mente di metterlo in contatto con il tenore Brownlee. Ne nacque l’idea di quest’opera. Un crossover, ma di classe.
L’America (e Philadelphia) è il mondo dell’opera viva, verrebbe da dire. Non certo dell’opera da museo.
È esattamente così. È un processo messo in moto, a Philadelphia, una decina di anni fa, all’inizio con una sola opera contemporanea all’anno. Abbiamo portato e portiamo la musica contemporanea ovunque, in città. Non solo nelle nostre due sale, la grande da quasi 3000 posti e quella più piccola da 600 (il Perelman Theatre, ndr), ma nei musei, nelle strutture di archeologia industriale...
Che cos’è Opera on the Mall? Un altro progetto per venire incontro al grande pubblico?
Durante il festival di settembre, nel grande parco centrale dell’Indipendence Place, portiamo su maxi schermi una nostra produzione, gratis, per tutti. Due mesi fa abbiamo trasmesso le Nozze di Figaro fatte in aprile, dirette da me, e sono venuto undicimila persone.
La vostra politica paga, quindi.
È stato l’aspetto vincente. L’incremento del pubblico è reale, ed enorme è stato l’incremento della presenza di under 30. Abbiamo, anno dopo anno, costruito un pubblico diverso. Molti, moltissimi sono stati richiamati dalle opere nuove.
Com’è l’Italia vista da un simile paradiso dell’opera?
Sono molto affezionato all’Italia. Vengo sempre molto volentieri, soprattutto quando ci sono progetti interessanti e intelligenti, come questo Requiem di Donizetti che mi ha proposto il direttore artistico Micheli. La mia riflessione è questa: dobbiamo capire che se cerchiamo di restare dove siamo sempre stati, si ridurrà il nostro spazio. Rischiamo di vivere di rendita. Bisogna studiare sempre nuove cose, avere nuove idee, cercare un nuovo pubblico.
E gli americani cosa pensano di noi?
Adorano l’Italia! Amano il nostro background. E io sono riconoscente con loro, perché mi hanno sempre messo nelle condizioni di lavorare al meglio. Grazie al lavoro svolto in America, mi sono convinto di questo: è importante servire il nostro passato; ma dobbiamo cercare di capire il mondo che sta attorno a noi, comprendere la dinamicità del giorno d’oggi. Ed essere contemporanei. È la cosa più difficile.
Tra le “imprese” del Rovaris americano c’è anche, lo si citava prima, l’Artosphere Festival Orchestra, tra Fayetteville e Bentonville, nell’Arkansas. Come è andata?
La Fondazione Walton, quella del Walton Arts Center di Fayetteville e del museo Crystal Bridges di Bentonville, un gioiello dell’architettura, mi chiese di fare dei concerti da ospite. Proposi invece un festival e accettarono, sponsorizzandolo. Dal 2011 si tiene ogni anno, verso maggio, e dura qualche settimana. Tu agli americani non devi chiedere soldi. Tu agli americani devi dare un’idea. E loro ti danno tutte le risorse che ti servono.
In cosa consisteva il progetto?
Il progetto consisteva nel creare un’orchestra di giovani professionisti. Feci 500 audizioni, ne venne fuori una formazione di una ottantina di elementi, età media 26 anni, fra cui prime parti provenienti da altre importanti orchestre. Oggi le prime parti degli archi vengono dal Curtis Institute.
Un’orchestra tipo quella del festival di Lucerna, insomma. Qual è l’idea artistica di fondo?
Il taglio è davvero vario. Gli strumentisti dell'orchestra fanno concerti da camera ogni sera. La sala piccola è dedicata alla musica classica, Mozart, Haydn. Nella grande, facciamo musica sinfonica ad ampio spettro. Ci sbizzarriamo. Facciamo crossover, anche. Una volta perfino blue grass. Ci divertiamo. L’energia dei ragazzi è una cosa incredibile.
Torniamo a Bergamo. Il Requiem di Donizetti è una rarità. Come spiegarlo a chi non lo conosce?
È un’opera estremamente interessante. Spesso si commette un errore: quello di cercare paragoni fra questo Requiem e quello di Verdi…Questa opera di Donizetti deve essere calata nel suo tempo, che è molto distante da quello in cui Verdi scrisse il suo capolavoro. È un perfetto equilibrio tra gusto teatrale e stilemi di musica sacra dell’epoca, tra cui quel contrappunto che Donizetti apprese da padre Mattei. E nelle parti solistiche, rispunta l’operista.
Bergamo, mercoledì 29 novembre 2017, Basilica di Santa Maria Maggiore, ore 20.30
Messa di Requiem
per soli (soprano, contralto, tenore e 2 bassi)
coro a 4 voci miste e orchestra
Musica di Gaetano Donizetti
Carmela Remigio soprano
Chiara Amarù contralto
Juan Francisco Gatell tenore
Andrea Concetti basso
Omar Montanari basso
Direttore Corrado Rovaris
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Maestro del coro Fabio Tartari
© Donizetti Festival
© Artosphere Festival