Enfants terribles della scena italiana, Stefano Ricci e Gianni Forte hanno fondato nel 2006 il ricci/forte Performing Arts Ensemble. Formatisi accanto a Luca Ronconi a Roma e ad Edward Albee alla New York University, hanno sviluppato un linguaggio teatrale teso a spettacoli-performances nei quali il corpo dell’attore occupa un posto determinante. Aprendo una strada intermedia fra Jan Fabre e Romeo Castellucci, si collocano all’incrocio della danza, del teatro e dell’arte contemporanea- in una forma di rivendicazione che ha come colonna portante la denuncia della società dei consumi, l’invasione delle immagini e i guasti prodotti dalle mitologie contemporanee sugli individui. Al di là di una violenza metaforica, presso ricci/forte si trova il persistere di un pensiero che colloca la poesia e il corpo al centro dell’interesse, rivelatore e mezzo di espressione delle fragilità e delle debolezze umane. Ricci/Forte sono attualmente artisti associati presso il Théâtre de l’Archipel a Perpignano. In occasione della ripresa di PPP, ultimo inventario prima di liquidazione, omaggio a Pier Paolo Pasolini, abbiamo voluto presentare il loro lavoro e le prospettive che apre in un mondo e in un’Europa dove il teatro contemporaneo risuona come un grido disperato.
ricci/forte è come un marchio commerciale ?
Più esattamente, siamo un duo, un po’ come i cowboys dei western di Sergio Leone, spalla a spalla, l’uno essendo il critico dell’altro. Quando un artista è solo, viene assalito dal dubbio; in due i dubbi si dissolvono, perché i punti di vista si declinano al plurale. E’ sempre meglio non fidarsi troppo delle certezze monolitiche, non bloccarsi nel compiacimento. E poi, ogni gioia non condivisa si spegne immediatamente. In effetti, alla radice della parola dubbio si trova il termine duo ed è percio’ l’oscillazione tra almeno due possibilità. Si riflette sempre in comune, nulla è lasciato al caso. Siamo davvero schizofrenici, due clandestini, intransigenti, due corpi estranei in migrazione permanente, sempre fuggendo questa prigione repressiva ovvero tutto ciò che rappresenta l’ordine stabilito nel quale siamo allo stesso tempo carnefici e vittime. E’ solo quando riusciremo a strappare questo sottile fondale delle nostre esistenze e a scoprire tutto ciò che si nasconde dietro, ad alzare il sipario sull’anima di una nuova epoca che potremo finalmente coltivare la nostra libertà di uomini nuovi.
Voi producete insieme?
Lavoriamo insieme per la scrittura drammaturgica. Per quanto riguarda la messa in scena, è firmata da Stefano.Io sono come il grillo che sta sulla spalla di Pinocchio, che dà continuamente il suo parere, chiacchiero tutto il tempo ma in modo sincero e spassionato. Sono il suo angelo custode. E lui il mio.
Come vi siete incontrati?
Abbiamo iniziato come attori. Eravamo quelli che vengono chiamati due rivali, due giovani attori scritturati sempre per lo stesso genere di ruoli. Lavoravamo in compagnie rinomate, con registi come Mario Missiroli, Luigi Squarzina, Roberto Guicciardini…Eravamo apprezzati sulla scena italiana. Ma non comunicavamo veramente tra noi.
Ci siamo davvero incontrati a Palermo, mentre facevamo parte di due compagnie diverse che recitavano al Teatro Biondo. Una sera, sono andato a vedere Stefano recitare, l’ho trovato eccezionale. Alla fine dello spettacolo l’ho raggiunto nel suo camerino per congratularmi. Portavo uno zaino, ed ero talmente emozionato che lo dimenticai nel suo camerino. Dentro lo zaino c’era il manoscritto di un testo teatrale che stavo scrivendo. Il giorno dopo, Stefano mi ha rimandato il manoscritto in albergo e ho scoperto che aveva preso a completare il mio testo. Ero stupefatto: incredibile, mi dissi, è il mio universo, è ciò che volevo scrivere io stesso! L’ho chiamato, ci siamo incontrati e abbiamo discusso per l’intera giornata. Abbiamo subito capito che avevamo la stessa visione artistica, lo stesso mondo onirico e visionario. Ci siamo detti: Che cosa facciamo? Continuiamo, ma insieme? E abbiamo deciso di iniziare la nostra collaborazione come autori drammatici prima di creare la nostra compagnia nel 2006. Abbiamo trovato che l’ordine alfabetico forte/ricci non suonava bene e abbiamo optato per ricci/forte!
Avete seguito l'insegnamento di Luca Ronconi?
Eravamo nel periodo in cui, all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, Luca era il grande maestro. Lui aveva un modo tutto suo di analizzare il testo, minuziosamente, in profondità come uno speleologo. Poteva restare su un verso, su una frase o una riga per settimane e settimane. Staccava parola per parola. Quel modo di lavorare ci ha molto colpiti ed è il motivo per il quale, all’inizio, abbiamo deciso di mettere il testo al centro delle nostre attività creative. Le nostre prime pièces erano classiche, nel senso che erano basate su atti e personaggi. Poi andammo negli Stati Uniti e lì abbiamo scoperto la performing art, la realtà di un hinc et nunc, dell’essere se stessi in tempo reale sulla scena senza recitare o far finta d’incarnare un personaggio. Da allora la nostra scrittura è cambiata perché noi stessi, Stefano e Gianni, eravamo cambiati. A poco a poco, abbiamo incominciato a realizzare delle improvvisazioni e a impegnare degli attori performers. I nostri spettacoli ci assomigliano: sono degli enigmi, dei puzzles in cui finalmente ogni pezzo trova il suo posto giusto. Raccontiamo la vita com’è, senza ordine, perché la realtà non esiste. La frammentazione, la non-linearità danno un ritmo sincopato allo spettacolo e ne accentuano il dramma. Il nostro teatro è una zona franca dove tutto è possibile, come avviene nel laboratorio dell’alchimista, il posto in cui si possono mostrare cose che il pubblico non vede abitualmente. Abbiamo già occhi per guardare il mondo, sul palcoscenico dobbiamo far vedere qualcos’altro, qualcosa d’inaudito.
E insegnate pure?
Ci piace condurre delle master class e trasmettere agli altri la nostra esperienza. Offriamo loro con immenso piacere tutti gli arnesi di cui disponiamo.
La creatività ricci/forte è molto imitata, clonata, sia dagli studenti che da vecchi attori che hanno recitato nella nostra compagnia: carriere turbo o emergenti pirotecnici che si bruciano le ali al secondo impegno teatrale, come le valigie a rotelle made in China. Noi preferiamo l’effetto granello di sabbia che rallenta l’ingranaggio. Ci limitiamo a ricordare che, a un dato momento, bisogna saper uccidere il padre. Questa ‘liquidazione’ del padre l’abbiamo realizzata noi stessi con Luca Ronconi. Come ben sapete, una delle sue messinscene più celebri è l’ Orlando Furioso dell’Ariosto. Del quale è stata attuata una riscrittura contemporanea a Mosca, grazie all’invito illuminato di Kirill Serebrennikov e del Gogol Theater, poi del NET Festival. Era evidentemente un complesso creativo molto lontano da quello di Ronconi. Noi allora l’abbiamo rivisto e gli abbiamo mostrato degli estratti del nostro 100% Furioso (2013/14). Per Luca era come un omaggio ideale. Era felice, molto fiero e ci ha invitato a presentarlo al Piccolo Teatro di Milano.
Perché abbandonare il testo?
Il distacco è iniziato da Troia’s Discount (2006), spettacolo che mette in scena il canto IX dell’Eneide, gli atti eroici di Eurialo e Niso, teppisti di una periferia di oggi. Era l’ultima delle nostre pièces interamente scritta prima dell’inizio delle prove, sempre con personaggi ma dove si è cominciato a introdurre il lavoro sul corpo. Siamo ricorsi a un coach fisico che ha completato la compagnia. Dopo il nostro viaggio negli Stati Uniti abbiamo capito che le parole non erano la sola cosa importante. Il corpo poteva parlare e talvolta più forte e più intensamente della parola. Gli attori sono diventati performers, funzioni essenziali della drammaturgia. Abbiamo eliminato una certa continuità narrativa e spezzato l’idea diacronica della temporalità del racconto, attraverso una simultaneità di azioni e talvolta anche attraverso la mobilità del pubblico nello spazio. Non è una violazione gratuita delle regole e delle tradizioni ma una complementarietà, per permettere allo spettatore di ricomporre la propria visione attiva dello spettacolo. Dopo Troia’s Discount i dialoghi hanno incominciato a sparire per far posto a delle serie di monologhi, a flussi di coscienza. Il nostro teatro evoca la scomparsa del dialogo fra la gente. Come nella vita reale, non si parla più, si è sempre davanti al proprio schermo, tutto il tempo. Si comunica con il mondo intero ma in effetti con nessuno. E’ terrificante! Si soffre, si ama, si fa l’amore… ma dura una frazione di secondo, e ci si corica soli, con centinaia di selfies per testimoniare che ci siamo. Oggi siamo in un'epoca di anemia emotiva.
Questo uso della performance rimanda alla politica?
I critici hanno scritto che siamo dei pronipoti di Pasolini. Certo siamo più impegnati politicamente. Abbiamo proclamato a gran voce il nostro disgusto per la società contemporanea, la nostra nausea delle cattedrali consumistiche della borghesia. Il teatro è politica. Ed è nostra intenzione poeticizzare il politico (tale era la rivolta politico-poetica di Breton e dei Surrealisti), dar prova di creatività per cacciare gli oppositori di sempre, come ha fatto il sub-comandante Marcos quando ha attaccato un campo militare con aerei di carta. Così il nostro spettacolo è un atto d’amore e di rispetto verso la memoria di Pier Paolo Pasolini e migliaia di altri anonimi, dimenticati, torturati, massacrati e uccisi con violenza, come lui.
Qual è l’origine di questo linguaggio teatrale, insieme brutale e violento?
Noi siamo il risultato di ciò che viviamo e anche di ciò che leggiamo. In noi si sente l’eco dei maestri che ci hanno preceduto, senza tuttavia che siano che ci abbiano. Ciò che si vede non è mai qualcosa di nuovo ma piuttosto qualcosa che si è già dimenticato. Solo lo sguardo è nuovo. Il teatro è una materia vivente, più ancora del cinema e delle arti plastiche, e ci permette di vedere più chiaramente attraverso il vetro appannato del presente. La nostra stretta orfica con il linguaggio poetico può sembrare brutale a primo acchito ma ci permette di evitare di diventare dei meccanismi di riproduzione di parole prebloccate, al servizio di tutti coloro che vogliono disattivare nei nostri cervelli la facoltà fondamentale della critica.
L’immagine è al centro del vostro lavoro, dove occupa un posto ossessionante. Ed è un paradosso, quando si pensa che si tratta di un uso molto cattolico e insieme blasfemo.
Come la maggior parte degli italiani, abbiamo ricevuto un’educazione cattolica. E’ impossibile misurarne tutte le conseguenze ma si può dire che le nostre creazioni sono in un certo senso “cristologiche” . C’è una connessione molto forte, come un "attentato" d’immagini davanti al pubblico. Anche questo è il senso del teatro. All’inizio, certi spettatori venivano allo spettacolo e protestavano. Noi non cerchiamo lo scandalo ma d’altra parte non ci piace che il pubblico resti seduto confortevolmente nella sua poltrona di velluto rosso come farebbe nel suo divano di casa. Da ricci/forte lo spettatore è una persona unica, attiva, in allerta.
E che deve partecipare allo spettacolo come tutti noi. E’ un momento di scambio che non si ripete mai allo stesso modo. Quando lascia la sala, lo spettatore deve portare con sé qualcosa che gli è entrato sotto la pelle, nel suo sistema venoso. Si vuole che continui a pensare a ciò che ha visto, che si ponga delle domande e che il dubbio scuota le sue certezze.
Scrivete talvolta cose in interazione diretta con il pubblico?
Sì. Le chiamiamo performances site-specific, nelle quali il performer è in contatto diretto con lo spettatore. La cosa si può svolgere in una stanza da bagno, un garage, una camera d’albergo o una cucina di ristorante. Il pubblico è di fianco o intorno ai performer, talvolta solo a pochi centimetri. La gente li può toccare, sentire il loro sudore e guardarli negli occhi. E a sua volta il performer sente il battito del cuore del pubblico e questa presenza diretta che lo circonda
Il teatro è puro o impuro?
Nella vita si cerca la purezza senza ben sapere se si riuscirà a raggiungerla. E' un'utopia. Per contro, il teatro resta un luogo dove ci si può afferrare alle liane della curiosità: è il paradiso dell’immaginazione, un antidoto alla solitudine, il solo posto al mondo che valga la pena di essere abitato. Se ci si allontana dai limiti della fantasia, ci si impoverisce e la notte diventa di un nero volgare e insostenibile.
E questo titolo:”Ultimo inventario prima di liquidazione" ?
In Italia, quando un negozio chiude compare un avviso: ultimo inventario prima di liquidazione. Stefano e io ci siamo chiesti: che cos’è l’artista oggi? Facciamo la domanda a noi stessi. Perché continuare a fare questo mestiere? Certo, si lavora ovunque, si viaggia, si ha fortuna. Ma talvolta è difficile trovare un senso a ciò che si fa. Che cos’è un artista? Un coglione? Un santo? Un idiota? Una società che uccide i suoi poeti è una società malata. Il nostro ultimo spettacolo, Easy to remember, è dedicato a Marina Tsvetaieva, una poetessa russa vittima dello stalinismo. La società non ama il poeta perché la fa riflettere, ed essa rifiuta di farlo. Pensare, ragionare, è molto angoscioso. Tanto vale nascondere tutto sotto la sabbia, fare lo struzzo. I poeti pongono dei quesiti a una società che in genere pensa solo a guadagnare senza sosta denaro. Guadagno, dunque sono. Esisto perché guadagno e sono ciò che guadagno. Guadagno, sono…. altrimenti non sono nulla. La rispettabilità economica è in relazione con la problematica del potere. In un simile contesto, la cultura è molto pesante per i nostri governanti, non è redditizia. Non rimane altro da fare che gettarla nella pattumiera. La liquidazione è un inventario che si fa della propria vita. Pier Paolo Pasolini è stato ucciso perché disturbava la gente, quella della politica e quella della cultura, e perché fustigava la società dell’epoca. Quella di oggi non è molto cambiata e Pasolini è più che mai vivo, tra noi. Il suo pensiero, la sua opera sono qualcosa di molto attuale perché premonitori. Pasolini ci parla di ciò che può ancora arrivare e in forma più grave di allora.
Il consumo è una nuova forma di fascismo?
Sì, assolutamente. E’ una sete, una bramosia che ci possiede e nello stesso tempo è indifferenza nei confronti dell’oggetto di questa bramosia. Una bulimia che ha impregnato la nostra società: voglio tutto e subito ma soprattutto lo voglio per me. Viviamo in una società tritata nel carnaio dei lamenti istituzionalizzati, alla mercè della mondializzazione, del dispotismo del mercato di massa, del consumismo e della banalizzazione culturale. Faccio un esempio: la mattina, quando siamo in tournée, faccio la prima colazione con gli attori. Ascolto il modo in cui parlano delle serie tv. La serie è diventata l'orsacchiotto di peluche, si resta soli a casa, si prepara la cena, si accende il computer per guardare queste storie, questi amici fittizi, si vive con loro. Si aspetta il prossimo episodio come la nascita del proprio bambino. Nel 2009, il nostro spettacolo Macadamia Nut Brittle parlava già di questa dipendenza delle persone dalle serie televisive. E’ proprio contro tutto ciò che ci si batte ed è questa la ragione per cui si fa teatro. La poesia ti permette di prendere distanza dalla banalità della vita, di restituirle un significato profondo. Non è una fotografia ma uno sguardo d’autore fissato sulla società. Dovrebbe essere l’unico modo indispensabile per farti viaggiare con gli occhi spalancati, indispensabile come l’aria che respiri. Il pubblico non è un gregge di pecore da portare al mattatoio, questa idea è rivoltante.
C’è anche della nostalgia nei vostri spettacoli?
Non della nostalgia nel vero senso della parola ma piuttosto delle testimonianze legate alla purezza dell’infanzia e dell’adolescenza, intese come tappe di una vita molto attiva e di una costante ricerca d’identità. 'Vedere le cose con il cuore’, come dice la volpe al Piccolo Principe.
Che cosa rappresentano le variazioni di colori sul fondo della scena in PPP ?
In questo spettacolo si fa riferimento soprattutto all’ultimo periodo di vita di Pasolini, quello di Salò e di Petrolio, il suo periodo della profonda disillusione. Non abbiamo voluto fare una pièce biografica. Le variazioni cromatiche sul fondo della scena sono quelle delle opere di Jacopo da Pontormo, pittore che Pasolini amava molto. E’ il quadro La deposizione di Cristo che appare ne La ricotta, terzo episodio del film collettivo RoGoPaG Sono colori aciduli, molto vivaci. Il giallo è il colore del deserto, un luogo che Pasolini amava particolarmente e che si ritrova in molte sue opere cinematografiche. Il rosso è il sangue, la vita che scorre sotto la nostra pelle. Il verde, le foreste di Emilio Salgari, l'autore di Sandokan e dei suoi racconti esotici. L’azzurro è il colore del mare, un mare che è anche la madre e il liquido amniotico nel quale si fa ritorno alla fine.
Di recente siete passati dalla tragedia all’opera lirica. Perché questa scelta?
La musica è sempre stata presente nel nostro lavoro. Due anni fa abbiamo fatto un’intervista con un giornalista che ci chiese che cosa si pensava di fare in futuro. Gli abbiamo subito risposto: l’opera.
E quale opera? Turandot di Puccini, ci è venuto spontaneo rispondere. Qualche giorno dopo abbiamo ricevuto un colpo di telefono da Francesco Micheli, il direttore del Macerata Opera Festival. Da lì è partita l’avventura, il nostro primo titolo. E abbiamo vinto il Premio Franco Abbiati della critica per la migliore messinscena del 2017. Questa stagione abbiamo allestito Die glückliche Hand di Schönberg e Il castello di Barbablù di Bartók al Teatro Massimo di Palermo. E riprenderemo questo dittico la prossima stagione al comunale di Bologna. In settembre faremo una nuova messinscena del Nabucco verdiano al Teatro Regio di Parma.
Ma si può veramente lavorare all’opera come a teatro?
Per Turandot abbiamo avuto la fortuna di poter contare su ottimi cantanti, disponibili quanto gli attori di teatro. Abbiamo lavorato duro insieme e hanno dovuto imparare a muoversi in palcoscenico con movimenti complessi accanto a performers della compagnia ricci/forte. Anche noi abbiamo imparato molto da quell’esperienza. Ci siamo confrontati con i limiti della scena lirica e abbiamo trovato delle soluzioni originali per superare gli ostacoli. Non abbiamo toccato il libretto, salvo in un piccolo caso che ha fatto colare molto inchiostro perché, nella nostra versione, Liù viene uccisa da Turandot.
Avete altri progetti?
Metteremo in scena Les Contes d’Hoffmann di Offenbach al Teatro La Fenice di Venezia. E a Bergamo, un’opera ancora poco conosciuta di Donizetti, Marin Faliero. Per il resto, da qui e per i prossimi tre anni siamo artisti associati a l’Archipel, il teatro nazionale di Perpignano. Questa struttura ci aiuta a coprodurre e a presentare il nostro lavoro al pubblico francese. Abbiamo anche un progetto in corso di elaborazione con Rai 3
In Italia attualmente la situazione è delicata. Voi avete conosciuto il periodo Berlusconi e ora c’è il ritorno della Lega con Salvini…
In effetti il periodo di Berlusconi e della sua disastrosa politica culturale per noi è stato difficile. Nel 2005, quando abbiamo fondato la compagnia, nessuno credeva in noi. In precedenza, avevamo lavorato come sceneggiatori per la Rai e grazie al denaro guadagnato con la tv ci potemmo permettere di produrre i nostri primi spettacoli. Il pubblico ha subito riempito le sale. Il passaparola ha funzionato e poi sono arrivati i critici. Oggi la situazione per il teatro va di male in peggio, con Salvini al comando e i suoi tagli oscurantisti al budget della cultura. Un clima più che mai deleterio si è abbattuto sull’Italia. Per fortuna la nostra compagnia gira ancora il mondo. Siamo invitati un po’ ovunque, presto andremo a San Pietroburgo e di nuovo in Spagna e in Brasile. Per le nostre due anime in viaggio, sempre altrove, l’avvenire non si gioca dunque unicamente in Italia.
© Rosellina Garbo (Le Château de Barbe Bleue)
© Amedeo Carpentieri (Troia's Discount)
© Alfredo Tabocchini (Turandot)
© Chiara Saitta (Easy to remember)
© François Stemmer (Darling, Ipotesa per un'Orestea)
© Daniele e Virgina Antonelli (Macadamia Nut Brittle)