Giuseppe Verdi (1813-1901)
Les Vêpres siciliennes (1855)
Grand-opéra in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier
Prima rappresentazione assoluta 13 giugno 1855 all’Opéra di Parigi
Direzione musicale Omer Meir Wellber
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Light designer Cristian Zucaro
Movimenti scenici Sandro Maria Campagna
Coreografia Manuela Lo Sicco
Hélène Selene Zanetti
Henri Leonardo Caimi
Guy de Montfort Mattia Olivieri
Jean Procida Luca Tittoto
Ninetta Carlotta Vichi
Thibault Matteo Mezzaro
Danieli Francesco Pittari
Mainfroid Pietro Luppina
Robert Alessio Verna
Le comte de Vaudemont Gabriele Sagona
Le sire de Béthune Ugo Guagliardo e Andrea Pellegrini
Attori della Compagnia Sud Costa Occidentale
Corpo di ballo del Teatro Massimo
Direttore del Corpo di ballo Davide Bombana
Coro del Teatro Massimo di Palermo
Maestro del Coro Ciro Visco
Orchestra del Teatro Massimo di Palermo
Nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo in coproduzione con Teatro San Carlo di Napoli, Teatro Comunale di Bologna e Teatro Real di Madrid
Con risorse non immense, il Teatro Massimo di Palermo persegue da alcuni anni - da quando Francesco Giambrone ha assunto la direzione - una politica artistica intelligente ed esigente. Ne è testimone questa apertura di stagione, che presenta Les Vêpres siciliennes di Verdi nella versione originale francese, con l'ulteriore vantaggio di un titolo ambientato in Sicilia, nel percorso che anche la ex-direzione artistica di Marco Betta, il nuovo Sovrintendente (Giambrone ha recentemente assunto il timone dell'Opera di Roma), ha contribuito a tracciare. Per un'opera particolarmente difficile nella sua versione originale francese, di rarissima esecuzione fino a una quindicina di anni fa, si può dire che la sfida è stata vinta.
Video completo dello spettacolo su ArteConcert :
https://www.arte.tv/it/videos/105766–000‑A/giuseppe-verdi-les-vepres-siciliennes/
Per l’inaugurazione della sua nuova stagione il Teatro Massimo di Palermo ha rappresentato la versione originale francese di una delle numerose opere scritte nel diciannovesimo secolo dai maggiori compositori italiani per i teatri parigini, che in Italia (e spesso anche all’estero) fino a pochi anni fa erano sempre eseguite nella traduzione italiana e con profondi rimaneggiamenti. Quest’anno la scelta è caduta su Les Vêpres siciliennes, mentre nel 2018 era stato rappresentato Guillaume Tell di Rossini, nel 2019 La Favorite di Donizetti, cui si può aggiungere l’inaugurazione del 2017 con Macbeth, che vide la luce a Firenze nel !847 ma ebbe la sua versione definitiva a Parigi nel 1865. Nel caso delle Les Vêpres siciliennes il ricco filone delle opere scritte per Parigi da compositori italiani si intrecciava con un altro filone presente da alcuni anni nei cartelloni del teatro palermitano, quello delle opere ambientate in Sicilia : oltre all’inevitabile Cavalleria rusticana, ricordiamo un lontano Liebesverbot di Wagner, poi La Lupa di Tutino, Il Caravaggio rubato di Sollima e il Pirata di Bellini e ora le stesse Vêpres siciliennes.
Dunque – senza dimenticare che insieme a queste venivano eseguite tante altre opere, altrimenti si avrebbe l’idea distorta del Massimo come teatro provincialmente chiuso nella sua “sicilianità°, che è quanto di più lontano dal vero si possa immaginare – Les Vêpres siciliennes erano in un certo senso la summa delle due linee guida della programmazione del Massimo negli ultimi anni e quindi simboleggiavano l’azione del sovrintendente Francesco Giambrone, che proprio in quei giorni lasciava il Teatro Massimo per assumere lo stesso incarico all’Opera di Roma. A succedergli era Marco Betta, che nella sua qualità di direttore artistico del teatro palermitano aveva anch’egli contribuito alla programmazione di quest’opera.
Les Vêpres siciliennes, rappresentate all’Opéra di Parigi nel 1855, sono un omaggio alla fierezza, al coraggio e all’amor per la patria dei palermitani, che nel 1282 si ribellarono contro i francesi che dominavano la Sicilia e li cacciarono. Ma oggi il patriottismo non infiamma più l’animo degli spettatori, quindi la regista Emma Dante volle rendere più attuale questo grand-opéra e trasformò quella lontana rivolta contro il dominatore straniero nella lotta attuale contro la violenza, la prepotenza e la barbarie della mafia. Quest’idea ha un grande valore morale e civile ma ovviamente la sua applicazione a Les Vêpres siciliennes non avviene senza forzare e distorcere la lettera e in parte anche lo spirito dell’opera. Infatti Scribe, l’autore del libretto, e Verdi non rappresentano i francesi come una banda di feroci criminali qual è la mafia. Il viceré Guy de Monfort, sebbene eserciti il suo potere con durezza, non è certamente un boss mafioso, ma ha una sua grandezza e nobiltà, tanto che equiparando i mafiosi agli occupanti francese si rischia quasi di nobilitarli. Si dice che Scribe e Verdi non presentarono i francesi in una luce troppo negativa per non urtare la suscettibilità del pubblico parigino : ma non bastò, poiché comunque ci fu chi non gradì la rievocazione di un tale episodio storico e chiese ironicamente perché Verdi, se voleva rappresentare una disfatta francese, non avesse scelto direttamente la battaglia di Waterloo. Vero o no che sia quest’aneddoto, evitarono di rappresentare i siciliani totalmente buoni e i francesi totalmente cattivi non tanto per una precauzione diplomatica ma per creare una drammaturgia più varia di quella del tipico melodramma italiano, che desse adito a sviluppi più interessanti per quel che riguarda sia lo svolgimento dell’azione sia la psicologia dei personaggi.
Dunque la Dante non ha trovato nelle Vêpres siciliennes sufficienti appigli per una lettura in chiave di lotta alla mafia. Ma almeno un appiglio c’era e non se l’è lasciato sfuggire : nel primo quadro dell’opera la protagonista femminile Hélène commemora l’anniversario dell’uccisione di suo fratello da parte dei francesi e la regia ha avuto buon gioco a trasformare tale momento nella commemorazione delle vittime della mafia, facendo portare in scena, come se fossero immagini di santi in una processione religiosa, le fotografie di tanti giudici, poliziotti e persone comuni che si opposero alla mafia e per questo furono uccise. È stato un momento di grande forza teatrale e di grande impatto emotivo, che non si sarebbe mai potuto raggiungere evocando i fatti del 1282 : oggi gli eroi della Sicilia sono questi, non i protagonisti di quella remota rivolta antifrancese.
Non trovandoli nell’opera, la Dante ha dovuto inventare dal nulla degli spazi per portare avanti la sua idea. Dato che Les Vêpres siciliennes, come tutti i grand-opéra, hanno un lungo balletto nel terzo atto, ne ha preso la musica, l‘ha smembrata e l’ha distribuita in diversi punti dell’opera. Non ha usato tutta quella musica, ma soltanto degli spezzoni, che in un caso (le danze inserite alla fine del primo atto) sono stati anche strumentati ex novo per un gruppo folk di tre strumenti (clarinetto, chitarra e fisarmonica), presumibilmente con il benestare del direttore d’orchestra. E naturalmente, quello che si vedeva durante quelle danze era completamente diverso dal soggetto originario del balletto del 1855, che era le quattro stagioni. Dopo aver subito tutte queste radicali e – direi – violente trasformazioni, quegli inserti di danza non avevano più nulla a che vedere con l’opera di Verdi.
Tuttavia si deve riconoscere che alcuni di tali intermezzi mimati e danzati sono stati momenti teatralmente fortissimi, molto fisici e viscerali, com’è il teatro di questa grande regista. Nel balletto inserito alla fine del primo atto i mafiosi usano come discarica la Fontana Pretoria, uno dei monumenti più celebri di Palermo, gettandovi materassi, frigoriferi, cartoni e quant’altro : a raccontarlo, non sembra un momento di grande teatro, ma bisognerebbe averlo visto. L’altro e più grande momento era la danza di Santa Rosalia, la patrona di Palermo, che esprimeva un’indescrivibile alternanza di debolezza, di forza, di rabbia, di follia, di rassegnazione e di ribellione. La coreografia di Manuela Lo Sicco trovava qui una magnifica interprete in Viola Carinci, attrice-ballerina dalla forte carica magnetica. Cosa significava questa danza della santa venerata dai palermitani ? Per fortuna la Dante non è affatto didascalica, quindi il significato bisogna cercarselo da soli. La mia idea è che l’evocazione di usi, costumi e credenze popolari (in altri momenti compaiono i “pupi” siciliani e i pescatori di tonno) voglia suggerire che in un primo tempo queste tradizioni ataviche dei palermitani abbiano contribuito all’accettazione passiva della mafia, ma che col tempo anche queste tradizioni abbiano portato al rifiuto di quella violenza criminale. Quest’interpretazione trova una conferma nel fatto che nell’ultima scena dell’opera i soldati francesi, pardon i mafiosi, vengono catturati con le reti e poi uccisi con le fiocine, come nella “mattanza”, la tradizionale e feroce tecnica di pesca dei tonni usata fino a qualche decennio fa.
Ripeto che protestare contro la mafia ha un alto significato morale e civile ed è totalmente condivisibile ma Les Vêpres siciliennes non erano l’occasione più idonea. Non che l’operazione fosse totalmente sbagliata, perché da una parte qualcosa dell’autentico spirito dell’opera di Verdi è andato perso ma d’altra parte qualcosa di è guadagnato : penso a un più forte coinvolgimento degli spettatori – siciliani o no che fossero – in vicende che li toccano più da vicino che un lontano fatto storico di otto secoli fa. Ma avrebbe un significato ancora più forte commissionare un’opera sulla mafia a un compositore di oggi : richiederebbe anni prima di essere realizzata, ma potrebbe essere un’idea per il futuro.
Ritornando ad Emma Dante, la sua regia non si esauriva affatto in questa ideale sfida alla mafia ma aveva molte idee forti, originali e suggestive, che si sono impresse nella memoria. Si possono citare, per fare un esempio, l’arrivo di Jean Procida su una barca sospesa in aria, come se fosse un sogno poter rivedere finalmente la sua Palermo. Un altro esempio sono le donne che si lavano i lunghi capelli immergendoli in tinozze e poi sollevando la testa di scatto, provocando alti getti d’acqua : un’immagine molto bella, che potrebbe sembrare fine a sé stessa ma che (probabilmente) sta a rappresentare la bellezza e la fierezza delle donne siciliane.
Omer Meir Wellber, direttore musicale del teatro palermitano, ha iniziato con una splendida ouverture e ha proseguito con una lettura che si potrebbe definire sinfonica di quest’opera, per la grande attenzione data ai tanti momenti – non mi riferisco ai brani esclusivamente strumentali ma anche all’accompagnamento dei brani vocali – che hanno armonie e orchestrazione veramente pregevoli e che è giusto mettere in evidenza. Ma non sempre il direttore israeliano è riuscito a lasciar sgorgare tutta la carica drammatica di Verdi, forse perché non ha ancora una grande consuetudine con l’opera italiana o piuttosto franco-italiana (però aveva già diretto Les Veprês alla Bayerische Staatsoper). Ha anche operato vari tagli, ma questo non è un delitto, perché non credo si sia mai sentita un’edizione assolutamente completa di quest’opera ; però avrebbe potuto evitare di tagliare due pagine belle in sé e soprattutto importanti per preparare l’atmosfera di quel che segue, cioè l’introduzione orchestrale al quartetto “Quelle horreur m’environne” nel primo atto, che esprime tutto lo sdegno di Hélène all’apparire di Montfort, e il coro gioioso con cui all’inizio del quinto atto si apre la festa di nozze, che poi si rivelerà funesta e si concluderà con la strage dei francesi (su cui Verdi e Scribe fanno calare il sipario, preferendo non mostrarla). Comunque era una direzione di classe, che ha ricavato tinte preziose dall’orchestra palermitana. Da menzionare anche la precisione e la compattezza del coro, preparato come sempre ottimamente dal suo direttore Ciro Visco.
Per i protagonisti non si scelsero i tipici cantanti verdiani con voci potenti e drammatiche, poiché la fonetica francese con le sue vocali nasali, le “e” mute e le semi-vocali è diversa da quella italiana e quindi richiede un modo di cantare diverso, con suoni meno aperti e meno appoggiati, insomma meno sfogato, nonché maggiore attenzione alle sfumature. Dunque il cast è stato assemblato con grande sagacia, cercando tra i giovani cantanti italiani le voci più adatte ad un’opera francese, sebbene scritta dal compositore più emblematico del melodramma italiano.
Uno di questi cantanti era il basso Luca Tittoto (ha saltato la prima recita, perché contagiato dal Covid, ma è tornato nelle repliche) che ha iniziato la sua carriera come specialista dell’opera del Seicento, poi è gradualmente arrivato fino a Mozart e ultimamente ha allargato il suo repertorio al primo Ottocento. Non ha dunque una voce tipicamente verdiana e arriva con un leggero sforzo a quel paio di note molto profonde che la parte richiede, ma viceversa fa molte cose che il tipico basso verdiano non può o non vuole fare. Fin dall’inizio ha dimostrato quale fosse il suo raffinato approccio a Verdi : ha attaccato “piano” e ha subito fatto ascoltare una splendida “messa di voce” e un’elegante fioritura, che non erano affatto preziosismi vocali fini a sé stessi ma rendevano l’emozione interiore e l’estasi di Procida nel rivedere “les bords enchantés” della sua patria dopo anni di esilio, mentre il tipico cantante verdiano vede in questa celebre aria soprattutto l’occasione di far mostra della sua profonda voce di basso e la rende cupa e tonitruante.
La Duchesse Hélène era la giovane Selene Zanetti, i cui ruoli abituali sono Mimì della Bohème, Liù della Turandot e Micaela della Carmen. La sua voce di soprano lirico ha uno splendido timbro e un ottimo legato e sale senza sforzo all’acuto, ma non è ancora totalmente pronta ad un ruolo così drammatico e pesante, cosicché in alcuni punti faticava a non farsi sommergere dall’orchestra e le sue agilità erano corrette (e non è poco) ma prive di mordente drammatico. Però nelle pagine più liriche fu straordinaria : molti tra il pubblico erano commossi fino alle lacrime nel momento in cui perdona l’amato Henri e allo stesso tempo gli dice addio per sempre.
Anche Mattia Olivieri debuttava in un’opera drammatica di Verdi (in precedenza aveva cantato soltanto in Falstaff nella parte di Ford) ma la affrontava senza timidezza, con voce franca, rotonda, ben timbrata ma anche morbida e soprattutto usata con stile ed eleganza : sicuramente un ottimo Montfort. Un caso più controverso e problematico era Leonardo Caimi, che ha sostituito il tenore previsto in origine, ammalatosi di Covid. Non è più giovanissimo e a differenza degli altri ha già una certa esperienza in Verdi, infatti proprio nei giorni precedenti aveva interpretato Don Carlo nell’altro grand-opéra di Verdi (ma in italiano). La tecnica è un po’ eterodossa e la voce è affetta da un vibrato poco gradevole, ma è piena nei centri e sale facilmente all’acuto, così da permettergli di affrontare con una certa sicurezza la difficile parte di Henri. Personalmente ho apprezzato come abbia intelligentemente usato sia i pregi che i limiti della sua vocalità per dare un’interpretazione ben adatta a Henri, che non è certamente un eroe ma un giovane debole, tormentato ed eternamente indeciso. Buono il livello dei numerosi comprimari, che singolarmente non hanno molto rilievo, ma tutti insieme hanno un peso non trascurabile nell’economia dell’opera.
Quest'articolo è stato scritto da Mauro Mariani