Leoš Janáček (1854-1928)
Kat’a Kabanova (1921)
Opera in tre atti
Libretto di Leoš Janáček dal dramma Groza (L’uragano)
di Aleksandr Ostrovskij
Prima assoluta al Teatro Nazionale di Brno il 22 novembre 1921
Direttore, David Robertson
Regia, Richard Jones
Scene e costumi, Antony McDonald
Luci, Lucy Carter
Movimenti coreografici, Sarah Fahie
Maestro del coro, Roberto Gabbiani
Savël Prokofjevič Dikoj Stephen Richardson
Boris Grigorievič Charles Workman
Marfa Ignatévna Kabanová Susan Bickley
(detta la Kabanicha)
Tichon Ivanyč Kabanov Julian Hubbard
Katérina (Kát’a) Corinne Winters
Váña Kudrjáš Sam Furness
Varvara Carolyn Sproule
Kuligin Lukáš Zeman
Fekluša Angela Schisano
Glaša Sara Rocchi
Un passante Giordano Massaro
Una donna del popolo Michela Nardella
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera in Roma
Nuovo allestimento, in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden
Un’atmosfera interpretativa di deciso spessore ha segnato il debutto dell’opera di Janáček al Costanzi, dove non era mai apparsa. Lo spettacolo, in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden, ha messo in luce una lettura e una tenuta esecutiva di potente efficacia. L’alta qualità della partitura è venuta in evidenza grazie alla bella consapevolezza musicale del direttore David Robertson, della compagnia di canto, e dei complessi dell’Opera, e grazie al vigore del progetto scenico, che ha disegnato un clima di intensa presa drammaturgica.
Non era mai andato in scena al Teatro dell’Opera Kát’a Kabanová, il lavoro di Leoš Janáček (1854–1928) che apparve nel 1921 a Brno. Il titolo era stato programmato a Roma per il 2020, ma le restrizioni imposte dall’epidemia di Covid 19 ne avevano impedito la realizzazione. Ecco quindi che, dopo un secolo dall’esordio, l’opera del musicista moravo è finalmente approdata sul palcoscenico del Costanzi, in coincidenza con l’insediamento del sovrintendente Francesco Giambrone, che succede a Carlo Fuortes. Il nuovo allestimento è stato coprodotto con il Covent Garden, dove lo spettacolo, apparso nel 2019, ha procurato al regista inglese Richard Jones il prestigioso Premio Laurence Olivier per la migliore nuova produzione d’opera.
Il soggetto è tratto dal dramma Groza (L’uragano, 1859) di Aleksandr Ostrovskij, autore russo che nell’Ottocento elaborò numerosi lavori teatrali di successo. Successo fondato sull’intuizione di un teatro di costume dal sapore realistico e di ambiente borghese, popolato da commercianti, artigiani, funzionari, proprietari terrieri. Al centro di questa umanità, nella quale per lo più la donna non ha alcun rilievo, prevale il tipo sociale del mercante gretto e incolto, perno di un mondo soffocante, conformista, patriarcale. Peraltro L’uragano mette al centro gli slanci di una donna giovane e assetata di libertà, ed è considerato il capolavoro di Ostrovskij. Attratto dalla letteratura russa – alla quale si ispira per vari lavori, tra i quali l’opera Da una casa di morti, da un romanzo di Dostoevskij – Janáček stende da sé il libretto di Kát’a Kabanová. Riduce L’uragano originario da cinque a tre atti, drammaturgicamente ben congegnati, sforbicia decisamente testo e personaggi, punta sugli episodi decisivi della tragedia.
L’azione si svolge sulle sponde del fiume Volga, in una piccola cittadina russa, nel cui orizzonte, tradizionalista e conservatore, si caratterizzano diverse figure. Tra queste emerge, accanto alla protagonista, quella di sua suocera Marfa, che, madre possessiva e autoritaria, da un lato rimprovera continuamente il figlio Tichon di preferirle la moglie, e dall’altro opprime quest’ultima, Kát’a, rinfacciandole di non essere abbastanza sottomessa. Un incubo per la giovane sposa, alla quale è riservata, nel primo atto, una grande aria nella quale ella rimpiange l’infanzia con i suoi sogni, e lamenta la delusione sentimentale nei confronti del marito, freddo e succube della tirannica madre. Proseguendo nello sfogo, Kát’a lascia trapelare il desiderio di un altro amore, intenso e autentico. Sentendosi preda della tentazione, la giovane prega invano il marito di condurla con sé in un viaggio di lavoro. Nell’atto secondo questo slancio si materializza nei ripetuti amplessi con Boris, il giovane dei suoi desideri. L’atto terzo, col ritorno del consorte, vede esplodere la crisi esistenziale di Kát’a che, in preda ai sensi di colpa, in un grande monologo confessa il tradimento, a cui segue il suicidio con annegamento nel fiume.
Di fronte al cadavere, il marito Tichon rinfaccia alla madre e ai presenti la responsabilità della tragedia. E l’opera si chiude in una scena allucinata, nella quale la suocera , nella sua ipocrisia, si spinge a ringraziare coloro che hanno tratto a riva la sventurata nuora, in un tentativo irrealizzabile di ripristino della quotidiana normalità
Lo spettacolo dimostra che il premio conferito alla messa in scena era più che motivato. Ma anche l’intero versante musicale – direttore d’orchestra e compagnia di canto – ha ben impressionato, grazie anche all’ottima prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera. Insieme ai suoi collaboratori – Antony McDonald per scene e costumi, Lucy Carter per il disegno luci, Sarah Fahie per i movimenti coreografici – il regista Richard Jones ha reso incisivamente l’ottuso e angosciante clima sociale nel quale evolve la vicenda. Vicenda che significativamente colloca casa Kabanov in un contenitore di legno, largo ma circoscritto e comunque separato dall’esterno ; presenta una solitaria panchina come perno di inizio e fine degli eventi, nonché come sede di incontro e di congedo dei due amanti ; propone nel terzo atto una precaria pensilina come riparo dall’uragano, ma anche palcoscenico della penosa confessione della protagonista. In tale cornice, i cantanti e la folla si muovono e interagiscono in efficace aderenza, da un lato al mondo squallido e chiuso della comunità, dall’altro alla fragilità psicologica dei personaggi. E non manca – nella scena che vede duettare la terribile suocera e il suo greve e anziano amico, Dikoj (Stephen Richardson, impeccabile) – un siparietto nel quale la regia lascia intravedere anche un possibile coté sadomaso fra i due.
Molto bravo il direttore d’orchestra, David Robertson, a illuminare la complessa partitura, che avvolge e traduce egregiamente sia gli episodi intensamente tragici, sia i passaggi di spigoloso realismo. Sotto una direzione sicura e insieme duttile, e con un’Orchestra attenta a sfumature e dettagli, la musica di Janáček respira di profonda verità drammaturgica. Affiora così un gran bell’ordito strumentale, capace di sorreggere un canto che va dal pregnante declamato al lirismo acceso, evocando anche suggestioni e sedimenti di sapore popolare, come si coglie anche in uno degli interventi del Coro, preparato a dovere da Roberto Gabbiani.
Molto lodevole la protagonista Kát’a, figura alla quale il soprano statunitense Corinne Winters dona un rendimento vocale di luminosa intensità, dal timbro sempre omogeneo, con accenti di profonda penetrazione nelle pieghe del ruolo, tra momenti di passione e di instabilità. Straordinario anche il mezzosoprano britannico Susan Bickley, la suocera Marfa, tradotta in un’interpretazione, vocale e attoriale, che la rende imprescindibile, quanto insopportabile, nell’economia della messa in scena.
I due tenori, Julian Hubbard e Charles Workman, offrono una pregevole vocalità ai rispettivi personaggi, Tichon e Boris, resi molto bene anche nella loro debolezza e inadeguatezza rispetto agli ardori sentimentali della protagonista. E funziona egregiamente anche l’altra coppia di giovani amanti, Varvara e Kudrjáš, rappresentati con calzante leggerezza, scenica e vocale, da Carolyn Sproule e Sam Furness.
Quest'articolo è stato scritto da Francesco Arturo Saponaro