Benjamin Britten (1913-1976)
The Rape of Lucretia (1946)
(Lo stupro di Lucrezia)
Opera in due atti
Libretto di Ronald Duncan dall’omonimo di André Obey
Prima rappresentazione assoluta, Glyndebourne Festival , 12 Luglio 1946
Salvatore Percacciolo, direttore d’orchestra
Giorgina Pi, regia, scene, costumi
Valerio Vigliar, assistente alla regia
Andrea Gallo, luci
Bluemotion, video
Collatinus, Giacomo Pieracci
Lucretia, Candida Guida
Junius, Matteo Lorenzo Pietrapiano
Tarquinius, Luca Bruno
Bianca, Cecilia Bernini
Lucia, Elena Salvatori
Coro maschile, Nicola di Filippo
Coro femminile, Chiara Boccabella
Ensemble strumentale del Teatro Lirico Sperimentale
Ispirata a testi di Livio, Ovidio e Shakespeare, “Lo stupro di Lucrezia” - questa la traduzione italiana dell’opera - tratta il tema della violenza con uno sguardo particolare: «una pagina del Novecento inglese - afferma il neo-condirettore artistico Enrico Girardi - che rischia di essere perennemente attuale visto il tema, e che è interessante, non soltanto dal punto di vista del suo contenuto drammatico, ma anche di una sensibilità, di uno stile e di una vocalità che è molto distante rispetto a quella della tradizione italiana».Interpreti vocali saranno i cantanti del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto accompagnati dall’Ensemble strumentale del Teatro Lirico Sperimentale.
È stata suicidata, Lucrezia, altro che ! E, nonostante l’emergere di una morale cristiana nel finale dell’opera, è proprio la musica a ricordarci che il quadro della vicenda è ben più complesso. A Spoleto, la 75ma stagione del Teatro Lirico Sperimentale ha proposto The Rape of Lucretia (Lo stupro di Lucrezia), di Benjamin Britten su libretto di Ronald Duncan. Apparsa nel 1946, dopo il Peter Grimes dell’anno precedente, l’opera presenta, al di là dell’episodio, una meditazione di fondo sulla tragedia della guerra. E i cori conclusivi – maschile e femminile, un esecutore per parte, con funzione di racconto e commento come nella tragedia greca – invocano una palingenesi cristianeggiante, ispirata dal miraggio della redenzione nell’eternità : afflato di una religiosità laica, che emerge anche in altre pagine di Britten.
Il testo attinge al mitico racconto di Tito Livio, contenuto nei libri di Ab Urbe condita, racconto che culmina con la nascita della repubblica nell’antica Roma dopo la cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, di etnìa etrusca. Il libretto di The Rape of Lucretia si apre con i cori che narrano della desolazione in cui è sprofondata Roma, mentre i romani sono chiamati da quel sovrano all’assedio della vicina città di Ardea. Attorno al fuoco serale, i tre comandanti Collatino, Giunio e Sesto Tarquinio (figlio di Tarquinio il Superbo), annebbiati dal vino, si abbandonano a tipici discorsi da caserma. E si divertono a riferire come, in assenza dei mariti impegnati alla guerra, le rispettive mogli si concedano volentieri a sfrenate lussurie. L’unica donna incorruttibile, secondo l’opinione comune, è soltanto Lucrezia, moglie di Collatino, virtuosa e fedele, sempre intenta alle faccende domestiche e a filare, insieme alle ancelle Bianca e Lucìa.
Il racconto eccita l’istinto predatorio di Sesto Tarquinio. Questi allora, scioltasi la chiacchierata serale, segretamente parte col suo destriero alla volta di Roma e della casa di Lucrezia, deciso a violarne la castità e a possederla. Magistrale la scrittura di Britten, che affida al coro maschile la cronaca della cavalcata, in una pagina ribollente dell’impetuoso galoppo notturno. Al termine del quale, con infallibile plasticità che conduce a ben diversa scena, Britten ci apre le stanze di Lucrezia che, con le devote ancelle, è serenamente intenta a filare. L’atto primo si chiude con l’imprevedibile arrivo notturno di Sesto Tarquinio, che subdolamente chiede ospitalità per la notte. Una ninna-nanna mirabile, per poesia e varietà di colori pur nell’impiego di un ridotto organico strumentale, si dispiega su Lucrezia addormentata. L’avvicinamento notturno di Tarquinio al suo letto è scandito dal livido colore di un solo di timpani : impressionante. E qui, nel dialogo concitato della scena di violenza, si esplicita una certa visione maschile, patologica e frustrata, per cui la donna non può essere autonoma e diversa, ed è anzitutto strumento per appagare le brame virili. Dopo lo stupro Lucrezia, fatto chiamare il consorte Collatino, non potrà che togliersi la vita, per recuperare il proprio onore in base alle convenienze sociali. E viene dunque suicidata. L’opera si chiude con i cori che invocano un riscatto religioso dell’umanità, dirottando da Tito Livio che narra dell’insurrezione popolare che abbatte la violenta tirannia, e dà inizio al regime repubblicano.
The Rape of Lucretia è stata ben poco rappresentata in Italia, dov’è quasi un’opera nuova. Si sa che da noi Britten è stato sempre pochissimo eseguito, diversamente da quanto avviene, con largo e unanime successo, negli altri paesi occidentali. Colpa del cieco ostracismo, settario e ideologico, imposto in Italia nel secondo Novecento dai circoli di musica d’avanguardia, che hanno dipinto Britten come compositore retrò. Non lo era affatto, a dispetto di ottusi pregiudizi ; ma se anche lo fosse stato…? Fortuna che furori e schematismi ideologici, nemici della musica, sono oggi evaporati, e che Benjamin Britten è ormai riconosciuto anche da noi quale figura importante nella musica del secolo XX. Un compositore rigoroso, sempre misurato, che dirige il proprio sguardo con piglio lucido e spietato, senza coinvolgersi nel vortice drammaturgico, anche nella vicenda di Lucrezia. Lo si conferma da questa partitura, elaborata quanto originale.
Una partitura difficile, che in organico prevede tredici esecutori per diciassette strumenti : flauto (anche ottavino e flauto in sol), oboe (anche corno inglese), clarinetto (anche clarinetto basso), fagotto, corno, percussioni, arpa, pianoforte, due violini, viola, violoncello, contrabbasso. Ciascuna parte con un suo perché, drammaturgicamente incisivo e radicale. E la musica si dipana in un flusso continuo, senza numeri definiti, anche se si susseguono arie, declamati, cori, cori a cappella. Il tutto usato e incastonato con perfetto equilibrio, in un caleidoscopio di soluzioni timbriche e di pieghe chiaroscurali, con una strumentazione che scandisce sempre con efficacia il senso drammaturgico. Difficile trovare, con così pochi strumenti, una simile tavolozza di colori ; basti ricordare gli interventi del corno inglese, ad esempio nell’aria finale di Lucrezia, con suggestioni anticheggianti che sembrano evocare Purcell. Ma modernissimo è il senso di economia musicale che sovrintende al tutto, su una linea di sottrazione, anziché di accumulo.
Di questa potente concezione creativa si fa interprete Salvatore Percacciolo, sul podio dell’Ensemble strumentale del Teatro Lirico Sperimentale, il quale intesse una concertazione di alta qualità. Il direttore d’orchestra è attento a scolpire i momenti sonori e drammatici più accesi e sfrenati, comunque tenuti sotto controllo, ma anche a dipingere la poesia dei passi delicati e intimi, sul versante che associa Lucrezia, Bianca e Lucia, il coro femminile. Percacciolo risolve quindi egregiamente il non facile equilibrio tra orchestra e voci, e la coesistenza tra i diversi ingranaggi drammaturgici. Molto meritevole la compagnia di canto, che richiede ai giovani interpreti attento controllo e intensa penetrazione espressiva. Il contralto Candida Guida è una convincente Lucrezia, e con lei figurano bene gli altri due personaggi principali : Luca Bruno, arrogante e perverso Tarquinius, e Giacomo Pieracci, caldo e vellutato Collatinus. Anche Matteo Lorenzo Pietrapiana, Junius, e la ventiduenne Elena Salvatori, brillante Lucia – allievi del corso di quest’anno, come Pieracci – si disimpegnano a dovere, e molto bene fa il mezzosoprano già in carriera, Cecilia Bernini, nei panni di Bianca.
Vanno ancora sottolineate le prove di Nicola Di Filippo, coro maschile, e Chiara Boccabella, coro femminile, che tracciano la loro inconsueta dimensione con encomiabile consapevolezza identitaria. Nel progettare movimento e impianto visivo, con luci di Andrea Gallo, la regista Giorgina Pi ha trovato un accorto bilanciamento nella resa della vicenda, dosando la sua lettura tra crudezza, desolazione e squarci di serenità, in un percorso di efficace riuscita. E ha regolato con gusto anche un corredo di proiezioni in bianco e nero, oniriche e non invadenti, tra flutti trasparenze e nuvole che hanno ben integrato l’azione.
Quest'articolo è stato scritto da Francesco Arturo Saponaro